di Padre Mario Piatti icms
ROMA, martedì, 25 ottobre 2011 (ZENIT.org)- Fin dalle origini la Chiesa ha ravvisato, nella figura di Giovanni -il “discepolo amato”- i tratti distintivi di ogni discepolo del Signore, a cui il Maestro, quale ultimo dono di amore, consegnava dalla Croce sua Madre. Il reciproco “affidamento”, di Giovanni a Maria e del discepolo alla Madre, suggellato dal sangue di Cristo e dalla solennità di “quell’ora” (cfr. Gv 19,25-27), è stato spesso considerato quale fondamento della autentica devozione mariana e della “consacrazione a Maria” (richiesta dalla Vergine stessa nelle sue apparizioni e, ultimamente, in modo assai esplicito, a Fatima).
Senza entrare in questa vasta e affascinante problematica e letteratura, vorrei provare, pur brevemente e semplicemente, ad allargare questa prospettiva, collocandola in un orizzonte universale.
Una certa fatica si avverte, a volte, nel parlare di Maria Santissima ai nostri fratelli separati, soprattutto di area protestante (come si sa, per ragioni culturali e storiche, in Oriente la situazione è diversa) o nel proporla, al di là dei confini propri della cattolicità, agli “uomini di buona volontà”; quasi che la Vergine fosse un possibile ostacolo al dialogo “sui massimi sistemi” o una figura troppo legata alla sfera sentimentale e, quindi, un po’ sdolcinata, priva di consistenza teologica.
In realtà, chi meglio di una Madre può costituire il centro e il raccordo affettivo più vero e più profondo per tutti coloro che seguono Cristo Signore?
La ricchissima tradizione orientale, da un lato, e il rigoroso riferimento alla “sola Scriptura”, dall’altro, in realtà sembrano mirabilmente confluire in Maria, la theotokos, punto di raccordo “umanissimo” e materno delle esigenze evangeliche. Il “versante mariano” della Fede non può che consolidare i ponti di un dialogo – difficile, ma pur sempre fecondo e quanto mai necessario – tra le diverse Chiese, che nella Vergine possono contemplare la risposta più bella, più libera, più responsabile e anche più concreta al Verbo di Dio.
La parente Elisabetta esclama, colma di stupore e ispirata dall’Alto: A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me? (Lc 1,43), parole che preludono alle successive solenni proclamazioni della Chiesa, circa la sua maternità divina, la immacolatezza della sua anima, l’assunzione al Cielo; ma che riecheggiano anche nel nostro cuore e nello spirito di chi, senza pregiudizi, si accosta a Lei, raccogliendo, con stupore, una lezione di vita unica, santa, ineguagliabile.
Associata in tutto alla vicenda terrena del Figlio, Maria manifesta, al tempo stesso, in maniera singolare, la sua piena solidarietà con la nostra esperienza umana. È accanto a Cristo sempre e soprattutto in quelle “svolte” esistenziali che segnano la vita di ogni uomo: la nascita, la famiglia, la socialità, la sofferenza, il dolore e la morte.
Tutto, in Lei, è profondamente segnato dalla Fede in Jahvé, dal riferimento alla Parola dell’Altissimo e al mistero della sua Volontà, anche quando angosciata non comprende (cfr. Lc 2,48-50) ma continua a confidare e a serbare nel suo Cuore tutte queste cose (Lc 2,51). Anche quando tutto sembra inesorabilmente concludersi nella tragedia della Croce. Ella accompagna, passo dopo passo, il Figlio nel percorso della sua missione terrena con la fedeltà incrollabile di chi ha posto Dio a fondamento della sua esistenza: lo stabat Mater di Giovanni (19,25) racchiude proprio l’irrevocabilità della sua scelta per Cristo, di cui è Madre ma –e forse più- è la discepola per eccellenza, straordinaria nella sua umiltà e fortezza, nella sua incomparabile dolcezza e nella sua fermezza. Donna di Fede, dunque, donna formata e plasmata dalla Fede, che in Lei produce il frutto di una Carità senza limiti, immagine della Carità della Chiesa. In questo senso Maria parla al cuore dei nostri “fratelli separati”, con il suo accento tipicamente materno.
Ma Ella sa parlare anche al cuore di ogni uomo. C’è un linguaggio universale, fatto di amore, di comprensione, di attenzione e di tenerezza, che la Vergine incarna in un modo del tutto originale. Non a caso il Vangelo di Giovanni si apre, nella sua coloritura mariana, con l’episodio delle Nozze di Cana (GV 2) e si chiude con l’immagine drammatica del Calvario: come a dire che ogni uomo può sentirsi vicino e solidale con quella Donna –a qualunque credo o religione appartenga- perché con Lei condivide ciò che è tipicamente umano, l’esperienza dell’amore (la viva attenzione per gli sposi) e del dolore (la partecipazione alla Passione e alla Croce). Maria è sempre lì, dove una vita scorre, dove c’è una esperienza “umana”: per questo può parlare al cuore di ogni uomo.
Non si tratta certo di estendere, indebitamente e superficialmente, le prerogative mariane in campi che almeno apparentemente) non le appartengono e non le competono, ma di riconoscere un “carisma” unico, espressione del “genio femminile” di Maria, che ha prodotto e produce tanto bene, nella Chiesa, e che può contribuire a dialogare anche con il mondo, a partire proprio dalla sfera della quotidianità.