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"Educare al lavoro dignitoso": prolusione del cardinal Bagnasco al Convegno della Pastorale Sociale
RIMINI, martedì, 25 ottobre 2011 (ZENIT.org) -Riportiamo la prolusione del presidente della CEI, cardinale Angelo Bagnasco, al Convegno Nazionale dei Direttori della Pastorale Sociale Educare al lavoro dignitoso. Quaranta anni di pastorale sociale in Italia.
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Un cordiale saluto ai convenuti e all’Ufficio CEI per i problemi sociali e il lavoro che, con il suo Direttore, ha promosso opportunamente questo Convegno su “Educare al lavoro dignitoso: 40 anni di pastorale sociale. Mi sembra che il tema scelto rappresenti un interessante contributo nell’attuale momento, in cui la realtà del lavoro e della occupazione sono motivo di apprensioni, attese e ripensamento per tutti alla luce anche della contingenza internazionale.
1. La prossimità della Chiesa alla vita degli uomini
Un primo doveroso pensiero deve andare alla sollecitudine che la Chiesa da sempre ha per la vita della gente. Ciò non risponde a qualche strategia pastorale, ma appartiene alla sua stessa vita: “La santa madre Chiesa – afferma il Concilio Vaticano II – nell’adempimento del mandato ricevuto dal suo divin Fondatore, che è quello di annunziare il mistero della salvezza a tutti gli uomini e di edificare tutto in Cristo, ha il dovere di occuparsi dell’intera vita dell’uomo, anche di quella terrena, in quanto connessa con la vocazione soprannaturale” (Concilio Vaticano II, Gravissimum educationis, Proemio). La vicinanza agli uomini là dove essi vivono, fa parte dunque della missione religiosa della Chiesa fin dalle sue origini, consapevole che “Le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono, sono pure le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce dei discepoli di Cristo, e nulla vi è di genuinamente umano che non trovi eco nel loro cuore” (Concilio Vaticano II, Gaudium et spes, n. 1); e consapevole che “con l’incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo. Ha lavorato con mani d’uomo, ha pensato con mente d’uomo, ha agito con volontà d’uomo, ha amato con cuore d’uomo. Nascendo da Maria Vergine , Egli si è fatto veramente uno di noi, in tutto simile a noi fuorché nel peccato” (ib. n. 22). Ecco il punto sorgivo della missione della Chiesa: Corpo mistico di Cristo, prolunga nella storia la missione del suo Sposo e Signore. Le forme di tale prossimità all’uomo si sono arricchite nel corso dei secoli, a volte sono mutate adeguandosi ai cambiamenti delle società e delle culture; ma sempre si sono ispirate al mandato ricevuto, per manifestare il volto di Cristo, per accendere la speranza, per aprire agli uomini l’accesso a Dio.
La storia registra che, in alcune epoche, fu l’iniziativa dei monaci benedettini a sviluppare lavoro, a organizzare un modello di vita economico e sociale; fu la missione della Chiesa a diffondere quel patrimonio comune di idee e valori che, avendo come sorgente la fede in Gesù, creerà coesione e senso di appartenenza in tanti Paesi e nell’intero Continente europeo. In Italia, la fitta rete di Parrocchie, di edicole e santuari, di carità, e di cultura, la stessa liturgia, esprimono con evidenza la vicinanza concreta e disinteressata della Chiesa alla gente ovunque vive, anche nei luoghi più isolati e impervi, o nelle situazioni più difficili e gravose. E questo grazie a sacerdoti, persone consacrate e laici impegnati, che con fede e generosità si dedicano a conoscere e condividere i molteplici ambienti di vita. Tra questi luoghi, sempre più ha assunto evidenza l’ambiente del lavoro dove tanta parte del giorno gli uomini vivono.
E’ noto il Magistero che la Chiesa ha sviluppato con particolare ricchezza e puntuale aggiornamento nel tempo: l’Enciclica Rerum Novarum di Leone XIII ha segnato una specie sintesi che il Magistero aveva sviluppato nel tempo, imprimendo una moto accelerato e crescente alla riflessione sulla realtà sociale che Pio XI, Giovanni XXIII, Paolo VI, il Beato Giovanni Paolo II hanno continuato con approfondimenti concentrici fino all’enciclica sociale di Benedetto XVI, “Caritas in veritate”, che rappresenta non solo il punto più aggiornato del Magistero sociale fino ad oggi, ma anche il riferimento più alto e profetico per leggere e poter traguardare con fiducia l’ inedita congiuntura mondiale.
Come ho recentemente ricordato, parlando ai Confratelli, “ci commuove sentire la fiducia e la gratitudine che vengono espresse quando, come Vescovi, ci rechiamo nei molteplici ambienti di lavoro delle nostre città, campagne, porti. Ci commuovono soprattutto le parole della gente più semplice, dei lavoratori più umili: noi vi siamo grati per la vostra gratitudine che ci riconosce Pastori e amici, riferimenti affidabili là dove, per voi e le vostre famiglie, guadagnate un pane spesso difficile e a volte incerto. (…) Noi nulla chiediamo se non di starvi accanto con il rispetto e l’amore di Cristo e della Chiesa” (Prolusione Consiglio Permanente, 26.9.2011).
Come non ricordare, in questa occasione, il discorso che Paolo VI tenne ai Sacerdoti incaricati dell’assistenza ai lavoratori? Era il 4 dicembre del 1971 quando l’allora Pontefice diceva: “Ci fa veramente piacere ricevere oggi, sia pure per brevi istanti, il vostro gruppo, carissimi sacerdoti incaricati, su scala regionale, della Pastorale del mondo del lavoro. Il Convegno Nazionale, a cui avete partecipato, è la concreta risposta all’auspicio emerso (…) dalla riunione dei Vescovi italiani, delegati dalle Conferenze Episcopali regionali per questo specifico settore: ed è quindi un segno di vitalità nella comunità ecclesiale italiana, di docilità alle indicazioni della Gerarchia, di prontezza nell’adeguarsi alle crescenti esigenze di una pastorale, che deve inserirsi organicamente e con pieno diritto nella complessa pastorale d’insieme del giorno d’oggi. Per questo siamo assai lieti della vostra presenza; ma ne abbiamo piacere soprattutto perché è la prima volta, dopo la decisione del Consiglio di Presidenza della Conferenza Episcopale italiana, che ci incontriamo con un gruppo qualificato di sacerdoti, che si dedicano unicamente e specificamente alla cura spirituale dei lavoratori” (Paolo VI, Discorso ai Sacerdoti incaricati dell’assistenza i lavoratori, 4.12.1971).
2. L’uomo, misura del lavoro dignitoso
Venendo al tema indicato del Convegno, “educare al lavoro dignitoso”, mi sembra che esso debba essere inquadrato nell’ambito della cultura, anzi del primato della cultura. Non intendo, ovviamente, tale primato come una specie di “gabbia ideologica” all’interno della quale concepire e ragionare sul lavoro. Intendo solo affermare che, avendo il lavoro un legame strutturale con l’economia, il mondo e la storia li dirige la cultura non l’economia, anche se sembra il contrario e, in certa misura, è anche così. Ci sono delle forze propulsive di diversi livelli nella costruzione della storia: quelle più di superficie ed evidenti – come la politica, le leggi dell’economia e del mercato – e quelle più profonde e decisive che sono la cultura di un popolo. La cultura non è un sottoprodotto delle forze economiche, ma è un fatto spirituale, in cui la dimensione religiosa è portante. Che l’impulso religioso sia l’essenza dell’uomo e della sua vita è testimonianza continua della storia: ogni volta che le istituzioni religiose sono state soppresse e i credenti ridotti a cittadini di seconda classe, le idee religiose e le opere d’arte sono sempre riemerse. La cultura, infatti, nasce soprattutto e innanzitutto dal modo di affrontare la domanda circa il senso dell’esistenza personale, consiste nel modo di guardare la realtà della persona e di determinare ciò che è veramente bene per l’uomo in quanto tale. E’ dunque un orizzonte di valore che abbracc
ia tutto l’agire umano, compreso quello economico, per giudicarlo e orientarlo al fine ultimo, e quindi stabilire le priorità nella produzione, nelle sue modalità, e nell’uso dei beni.
Com’è noto, l’errore fondamentale del socialismo non è stato innanzitutto di carattere economico, ma antropologico. Non è stata la decrepitezza economica o una modernizzazione ritardata ad essere la causa primaria della sua fine, ma la negazione della verità sull’uomo. Se la persona non è riducibile a molecola della società e dello Stato, il bene del singolo non può essere del tutto subordinato al meccanismo economico-sociale, né è possibile pretendere che il bene economico si possa realizzare prescindendo dalla responsabilità individuale. L’uomo sarebbe ridotto ad una serie di relazioni economiche, e scomparirebbe la persona come soggetto autonomo di decisione morale. Ma è proprio grazie all’esercizio della moralità – cioè il suo agire libero e responsabile – che la persona costruisce la giustizia e quindi l’ordine sociale. Questo errore genetico del socialismo è proprio anche del consumismo e quindi della nostra civiltà, che sembra essere malata di questo morbo che, se non corretto, la porta alla decadenza. E’ innegabile che tutta l’attività umana, e quindi anche il lavoro, si svolge all’interno della cultura ed interagisce con essa, e quindi tra economia e cultura esiste un rapporto di reciprocità; ma deve restare fermo e chiaro il primato della cultura, se non si vuole entrare nella giungla di un mercato senza regole perché senza valori. E i valori, se non si riferiscono alla dignità della persona, che cosa hanno da offrire di così alto da poter obbligare moralmente? Sta dunque qui il criterio per valutare la dignità del lavoro, se è conforme alla dignità dell’uomo: qualunque lavoro non ha una dignità o un valore in se stesso in modo assoluto, ma è sempre relativo, cioè in relazione a ciò che ne è l’unità di misura, l’uomo. Un lavoro può essere ambito in rapporto al guadagno, al potere, al prestigio, alla fama che procura, ma non sarà dignitoso se chiede al lavoratore di rinunciare ai valori che rendono la vita degna di essere vissuta: guadagnare la vita ma perdere le ragioni del vivere è indegno dell’uomo perché non lo realizza nella sua umanità.
3. Un’opera educativa
Se questo è il criterio del lavoro dignitoso, allora è necessaria una grande opera educativa. Se, infatti, la cultura dominate deforma la visione della vita, la sua percezione di fondo, il senso complessivo, si corrompe la coscienza morale, e ogni ambito dell’esistenza rischia di essere svisato e considerato non in rapporto alla dignità della persona ma in base ad altri criteri che sono disvalori. La dignità umana si riflette nelle tre dimensioni del lavoro, poiché tutte si rapportano all’uomo-lavoratore e la rispecchiano. Il lavoro, infatti, oltre a permettere di guadagnarsi onestamente il pane, è un modo per partecipare all’opera della creazione: ha dunque un riferimento a Dio che affida il mondo all’opera intelligente degli uomini perché lo conoscano, lo governino e lo usino con rispetto e responsabilità. Sta qui la dimensione oggettiva del lavoro. Ma esso comporta altresì una dimensione soggettiva che – come si diceva sopra – costituisce il metro di misura più alto del suo valore non mercantile ma personale. Si tratta della possibilità per l’uomo di esprimere se stesso nelle sue capacità, e così meglio percorrere la via del proprio sviluppo. Vi è infine una terza dimensione, quella sociale, che consiste nell’essere – il lavoro – un luogo importante per contribuire al bene della società, cioè al bene comune: chi lavora, infatti, non lavora solo per sé e il suo giusto sostentamento, ma fatica con gli altri e per gli altri in ordine al bene generale. Questo aspetto – che non in tutte le attività emerge con immediata chiarezza – è tuttavia congenito ad ogni lavoro per quanto poco appariscente.
Proprio in questa ottica, per cui l’uomo è un soggetto in relazione, è ormai acquisita l’importanza delle buone relazioni all’interno dell’ambiente lavorativo. In un testo di Margalit (1998) – “La società decente” – l’autore chiama “decente quella società le cui istituzioni economiche e sociali favoriscono reti di relazioni sia in verticale che in orizzontale così che ognuno non si senta una molecola anonima, ma un soggetto attivo e partecipe. Nell’enciclica “Caritas in veritate”, Papa Benedetto interpreta il termine “decente” in modo più ricco: “Che cosa significa la parola “decenza” applicata al lavoro? Significa un lavoro che, in ogni società, sia l’espressione della dignità essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie e di scolarizzare i figli senza che questi siano essi stessi costretti a lavorare; un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie radici a livello personale, familiare, e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori giunti alla pensione una condizione dignitosa” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 63).
Per queste diverse ragioni si deve parlare del lavoro come diritto e dovere di ogni persona, del primato dell’uomo sul lavoro, e del primato del lavoro sul capitale: senza il lavoro, infatti, la persona viene a mancare di quelle vie di auto-sviluppo che Dio ha inscritto nella natura umana come grazia e compito per ognuno. Sena occupazione dignitosa, l’uomo difficilmente riuscirà a misurare le sue capacità personali, a stabilire relazioni collaborative con altri, a contribuire per il conseguimento del bene sociale, a sentirsi partecipe della edificazione del mondo, a percepire la sua dignità nel guadagnarsi onorevolmente il pane per sé e per i propri cari: “L’estromissione dal lavoro per lungo tempo – scrive il Santo Padre Benedetto XVI – oppure la dipendenza prolungata dall’assistenza pubblica o privata, minano la libertà e la creatività della persona e i suoi rapporti familiari e sociali con forte sofferenze sul piano psicologico e spirituale” (Benedetto XVI, Caritas in veritate, n. 25). Potremmo aggiungere – come sintesi – che nelle zona d’ombra del non-lavoro la fiducia e la stima di sé sono pesantemente minacciate, e la serenità verso il futuro viene meno. Per questo insieme di ragioni, lo Stato ha il delicato e gravoso dovere di provvedere alle opportunità di accesso al lavoro nei vari ambiti, tenendo tutti conto però che circostanze inedite, come quelle che il mondo sta vivendo, impongono un aggiornamento di mentalità e capacità di rinnovamento.
4. Alla scuola delle virtù sociali
Questa continua revisione di modi di pensare e di organizzare, richiede una conversione educativa permanente e generale, in grado di coniugare sempre meglio solidarietà e sussidiarietà, senza delle quali non esiste futuro a fronte della aggressiva globalizzazione in atto. E’ urgente da parte di tutti – ognuno secondo le proprie competenze e responsabilità – una capacità di interpretare i rivolgimenti economici, finanziari e sociali con nuova e più acuta lungimiranza, abbandonando anche categorie ormai vecchie, metodiche inadeguate e programmazioni irrealistiche, inerzie consolidate. Ma anche è necessaria, da parte di tutti, una missione educativa e culturale che rimetta a fuoco la vera immagine dell’uomo con le sue conseguenze. Proprio perché la persona è al centro di ogni espressione e attività umana, il primo e più importante lavoro si compie nel cuore dell’uomo. Qui la Chie
sa porta il suo contributo più specifico: essa è esperta in umanità grazie al suo Signore e alla sua bimillenaria storia. Non vi è questione terrena che non riguardi l’uomo, e l’uomo è la via della Chiesa, avendo il Signore Gesù posto la sua Chiesa come salvaguardia del carattere trascendente della persona umana. Essa ha la parola decisiva da annunciare sull’uomo e sul suo destino. Conviene ricordarlo “sia nei confronti della soluzione atea – scrive il beato Giovanni Paolo II – che priva l’uomo di una delle sue componenti fondamentali, quella spirituale, quanto nei confronti delle soluzioni permissive e consumistiche, le quali con vari pretesti mirano a convincerlo della su indipendenza da ogni legge e da Dio, chiude nolo in un egoismo che finisce per nuocere a lui stesso e agli altri” (Giovanni Palo II, Centesimus annus, n. 55).
Nessuna attività umana è possibile senza la libertà, ma non dobbiamo dimenticare che l’esercizio fruttuoso della libertà, in qualunque campo, richiede che da una parte si guardi costantemente la verità della persona nella sua interezza, come ricordano i Vescovi italiani negli Orientamenti pastorali: “Tra i compiti affidati dal Maestro alla Chiesa c’è la cura del bene delle persone, nella prospettiva di un umanesimo integrale e trascendente” (CEI, Educare alla vita buona del Vangelo, n. 5). Dall’altra richiede che si coltivino le virtù come la fiducia in se stessi, la laboriosità, la sobrietà, il senso di appartenenza ad una comunità verso la quale si hanno diritti ma anche doveri di onestà e di sacrificio. Insomma si tratta di andare a scuola delle virtù sociali. Bisogna riscoprire il gusto di “stili di vita nei quali la ricerca del vero, del bello e del buono, e la comunione con gli altri uomini per una crescita comune siano elementi che determinano le scelte dei consumi, dei risparmi, e degli investimenti” (ib. n. 36).
I cattolici hanno una grande responsabilità verso il corpo sociale in tutte le sue espressioni: hanno un debito di servizio per il dono della fede ricevuta, che li abilita ad essere umilmente “luce e sale della terra e luce del mondo”, e anche per quel patrimonio di storia cristiana che è un tesoro e come un giacimento inesauribile per il bene degli uomini e della civitas.