Cina: una monaca tibetana si è data fuoco

Dal marzo scorso, già nove monaci si sono auto-immolati

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di Paul De Maeyer

ROMA, mercoledì, 19 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Continua a salire la tensione nelle zone tibetane all’interno della provincia cinese del Sichuan, dove lunedì 17 ottobre una giovane monaca si è data fuoco nella città di Ngaba (o Aba in cinese) in segno di protesta contro la repressione da parte di Pechino.

Si tratta di Tenzin Wangmo, di appena 20 anni, che si è auto-immmolata vicino al suo monastero, il complesso di Mamae Dechen Choekhorling, situato a tre chilometri da Ngaba. Dopo gli otto monaci tibetani che dal marzo scorso si sono dati fuoco nel Sichuan, la giovane è diventata la prima religiosa ad effettuare il clamoroso gesto di protesta. La monaca è deceduta sul posto in seguito alle ustioni riportate.

Come riferito dall’agenzia AsiaNews (18 ottobre), fonti a Dharamsala, cioè la sede del Dalai Lama e del governo tibetano in esilio, nello Stato indiano dello Himachal Pradesh, raccontano che la Wangmo ha camminato per strada per alcuni minuti, urlando slogan contro la dominazione cinese e a favore del Dalai Lama.

Solo due giorni prima, sabato 15 ottobre, un altro giovane tibetano – il diciannovenne Norbu Dramdul – si era dato fuoco sempre a Ngaba per protestare contro la politica della linea dura da parte delle autorità cinesi e le continue gravi violazioni dei diritti umani. La polizia – riporta sempre AsiaNews (17 ottobre) – è riuscita a spegnere le fiamme e ha percosso pesantemente l’ex monaco del monastero di Kirti, che poi è stato portato via dagli agenti.

La sconvolgente ondata di auto-immolazioni è iniziata il 16 marzo scorso, quando un primo monaco di Kirti – il ventunenne Lobsang Phuntsog – si è suicidato dandosi fuoco. Come ricorda il sito Free Tibet, la data scelta dal giovane monaco non è stata casuale: il 16 marzo è l’anniversario delle proteste anti-cinesi del 2008 a Ngaba, durante le quali almeno 13 manifestanti furono uccisi dalle forze di sicurezza. Sei altri monaci, fra cui anche un fratello e uno zio di Phuntsog, sono stati arrestati in seguito al gesto estremo e condannati per aver “complottato ed assistito” l’auto-immolazione.

A seguire l’esempio di Phuntsog è stato il 15 agosto scorso un monaco del monastero di Nyitso, il ventinovenne Tsewang Norbu, che si è auto-immolato nella città di Tawu (in cinese Daofu), nella prefettura autonoma di Kandze (o Garzi), nel Sichuan. Secondo Free Tibet, il monaco è morto inneggiando il Dalai Lama e chiedendo la libertà per il suo popolo. L’ondata di suicidi ha conosciuto un’impennata nel corso delle ultime settimane. Dopo due altre immolazioni a settembre, nel solo mese di ottobre in totale quattro altri monaci e una monaca hanno scelto di darsi fuoco.

Il fatto che la grande maggioranza dei finora 9 tibetani che si sono dati fuoco – ben 7 – siano monaci o ex monaci del monastero di Kirti non desta sorpresa. Il monastero, che ha una sede a Dharamsala, è ormai da mesi nel mirino delle autorità cinesi. In appena mezzo anno, il numero di monaci a Kirti sarebbe secondo Free Tibet sceso da circa 2.500 ad appena 600, effetto della “campagna di rieducazione patriottica” lanciata da Pechino all’interno del monastero (The Telegraph, 18 ottobre). Secondo il superiore in esilio del monastero, Kirti Rinpoche, la repressione cinese ha trasformato la struttura in una “prigione virtuale” (idem, 12 ottobre).

“La tensione in Tibet si sta intensificando ed ampliando. Il numero e la frequenza di auto-immolazioni sono senza precedenti”, ha detto la direttrice di Free Tibet, Stephanie Brigden, al Telegraph (18 ottobre). “Informazioni (provenienti) dal Tibet suggeriscono che altri sono disposti a dare la loro vita, determinati ad attirare l’attenzione globale sulle persistenti e brutali violazioni che subiscono i tibetani sotto l’occupazione cinese”, ha affermato la Brigden, aggiungendo che le auto-immolazioni non sono atti isolati: in tutta la regione le proteste aumentano.

La serie di suicidi rispecchia il senso di disperazione e di rabbia di fronte alla campagna “Colpire duro” (Strike hard) condotta da Pechino per sedare le aspirazioni di libertà della popolazione tibetana. Secondo i dati di Human Rights Watch (HRW), ripresi dal New York Times del 12 ottobre, dal 2002 in poi la spesa pubblica per la sicurezza nella prefettura autonoma di Ngaba (o Aba) non ha smesso di crescere.

Mentre nel periodo 2002-2006 la cifra era tre volte superiore alla media delle zone non tibetane del Sichuan, nel corso del 2006 è salita a 4,5 volte. Dopo gli scontri del 2008, è aumentata nuovamente. Nel 2009 – rivela HRW -, la spesa pro capite per la sicurezza nella prefettura era di 779 renminbi (cioè circa 120 dollari), ossia 5 volte superiore alle zone non tibetane del Sichuan e il doppio rispetto alla capitale della provincia, Chengdu.

Nel frattempo, fonti buddhiste hanno ricordato ad AsiaNews (18 ottobre) che la loro religione vieta la pratica del suicidio. “Questi ragazzi sono bravi giovani, molto colpiti dal dominio cinese. Ma questo non toglie che il loro sia un atto non consentito dai nostri insegnamenti”, hanno dichiarato. Il Dalai Lama, accusato dalla Cina di incentivare le auto-immolazioni, ha infatti sempre sconsigliato di ricorrere a questo tipo di protesta.

Oggi, mercoledì 19 ottobre, è previsto a livello mondiale un giorno di digiuno e di preghiera per il Tibet. Ad organizzare l’evento è il governo in esilio per protestare contro la morsa della Cina sul popolo tibetano.

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ZENIT Staff

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