ROMA, sabato, 15 ottobre 2011 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso pronunciato il 1 ottobre scorso dal cardinale arcivescovo di Bologna, Carlo Caffarra, presso l’Istituto S. Cristina.
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La domanda che un giovane fece a Gesù, narra il Vangelo, è stata: «che cosa devo fare per avere la vita eterna?».
Dicendo “vita eterna” noi oggi pensiamo subito alla vita dopo la morte. In realtà l’espressione non ha principalmente questo significato.
“Vita eterna” significa vita che in ha se stessa un significato indistruttibile, poiché è una vita vera: è una vita buona.
Sapere che cosa significa vita buona è – lo vedremo fra poco – fondamentale per ogni educatore. Dedicherò dunque il primo punto della mia riflessione a questo tema.
1. Forse la definizione più profonda di “vita buona” l’ha data S. Tommaso d’Aquino quando la chiamò la «pienezza dell’essere». Cioè: la realizzazione perfetta della propria umanità, la sua fioritura completa.
Così dicendo, così definendo la “vita buona”, abbiamo implicitamente affermato che essa è raggiunta attraverso un itinerario. Ha [la vita buona] la natura stessa di una meta che si raggiunge dopo un vero e proprio cammino.
E qui si pone la prima domanda: in questo itinerario verso la pienezza del suo essere, l’uomo ha delle “indicazioni di marcia”, dei “vettori, segnali stradali”? oppure è totalmente sguarnito e consegnato ad una totale ignoranza circa la meta finale?
L’uomo ha in se stesso dei vettori, dei segnali di marcia costituiti dalle inclinazioni naturali proprie della persona umana. Faccio un solo esempio. L’uomo è naturalmente inclinato a vivere in società. Pensare ad una “vita buona” in una “società cattiva” è come pensare che un … pesce possa vivere fuori acqua.
Mi fermo ora un momento su questa realtà delle inclinazioni naturali, rimanendo sempre nell’esempio fatto.
Anche gli animali vivono in branco. Ma non è difficile capire l’abissale diversità fra il “branco animale” e la “società umana”. La scriminante fra le due realtà è costituita dal fatto che nel primo è l’utilità privata a tenere uniti, nella seconda è la bontà insita nella correlazione sociale come tale, nella condivisione del bene comune.
L’esempio ci porta ad una conclusione assai importante. Non un qualsiasi modo di seguire e realizzare le proprie inclinazioni naturali conduce alla pienezza della persona, alla realizzazione di una vita buona. Ma solo il modo veramente umano. Prestate bene attenzione all’avverbio veramente. Esiste una realizzazione vera ed una realizzazione falsa delle proprie inclinazioni naturali, e quindi ultimamente di se stessi. In altre parole: se parliamo di “vita buona” possiamo fare un discorso vero o un discorso falso. Esiste una verità circa ciò che è bene e ciò che è male per l’uomo. E l’organo di questa verità non può essere che la nostra ragione.
Essa guida le nostre inclinazioni naturali. Non dall’esterno, imponendosi o aggiungendosi ad esse. Ma dall’interno. Per ritornare all’esempio. L’inclinazione a vivere in società è già orientata a vivere in una società giusta; è già impregnata della luce [Tommaso dice: dell’ordinatio rationis] della ragione. Non è un’inclinazione cieca.
Aristotele dice una cosa molto vera quando dice che la guida della nostra ragione nei confronti delle nostra inclinazioni non è dispotica, ma democratica. Le inclinazioni vengono gradualmente razionalizzate, cioè impregnate della luce della verità. Questa razionalizzazione sono le virtù. La virtù è l’abituale disposizione delle nostre inclinazioni a realizzarsi secondo ragione, cioè nella verità.
Sono giunto alla fine del primo punto della mia riflessione. Per chiarezza lo sintetizzo nelle seguenti quattro proposizioni.
a) La vita buona è la realizzazione perfetta della propria umanità. Questa realizzazione si chiama felicità.
b) La vita buona è una meta verso cui siamo incamminati, guidati, orientati dalle nostre inclinazioni naturali in quanto sono abitate dalla luce della ragione.
c) Esiste quindi una vita buona vera e una vita buona falsa [cioè apparente]; è compito della ragione dirci, farci conoscere la verità/falsità circa la vita buona. Più semplicemente: la verità circa ciò che è bene e ciò che è male.
d) Le inclinazioni guidate abitualmente dalla ragione sono proprie della persona virtuosa; le inclinazioni non guidate dalla ragione sono proprie della persona viziosa. E quindi: la persona virtuosa vive una vita buona, una vita felice; la persona viziosa vive una cattiva vita, una vita infelice.
2. Noi però non vogliamo parlare di una vita buona in genere, ma della vita buona «del Vangelo». Anche il Vangelo fa una proposta di vita buona. Quale? Dedichiamo il secondo punto della nostra riflessione a costruire la risposta a questa domanda.
La risposta definitiva, ultima, che Gesù dà al giovane è: «seguimi». La vita buona del Vangelo è la sequela di Gesù. Riprendendo la formulazione precedente, potremmo dire: la perfetta realizzazione della propria umanità, e dunque la nostra felicità, consiste nella sequela di Gesù. La vita buona del Vangelo è costituita dal rapporto che la fede istituisce con la persona di Gesù.
Ovviamente non mi è possibile ora argomentare e riflettere come si dovrebbe su questa coincidenza, vita buona – sequela di Gesù. Mi limito alle seguenti tre riflessioni, tenendo ben presente la ragione del nostro incontro.
La prima. La proposta cristiana di vita buona riguarda l’uomo considerato nelle sue inclinazioni naturali, l’uomo cioè in cerca della sua beatitudine piena. Non si aggiunge estrinsecamente, ma la proposta cristiana si offre come compimento al contempo imprevedibile e perfetto delle naturali inclinazioni dell’uomo. Possiamo spiegarci meglio coll’esempio che ha accompagnato la nostra relazione.
L’inclinazione dell’uomo a vivere in società si realizza all’interno della proposta cristiana nel mistero di comunione interpersonale che è la Chiesa.
La seconda. Come dicevo nel primo punto della mia riflessione, esiste una verità circa la vita buona, circa il modo di realizzare se stessi. Una verità che è scoperta dalla ragione. Solo l’agire secondo ragione conduce a vivere una vita buona.
È però esperienza quotidiana delle difficoltà che incontra la ragione nella sua ricerca della verità circa la vita buona, degli errori in cui spesso essa cade. Ora «senza verità si cade in una visione empiristica e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a cogliere i valori – talora nemmeno i significati – con cui giudicarla e orientarla» [Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate 9, 2].
La proposta cristiana, in quanto divinamente rivelata, è un aiuto dato alla ragione anche in ambiti dove per sé essa sarebbe capace di scoprire il vero circa la vita buona.
Se ritorniamo all’esempio più volte fatto, un’espressione eminente di questa rilevanza veritativa della proposta cristiana per quanto riguarda la società, è la Dottrina sociale della Chiesa.
La terza. Un’altra esperienza quotidiana accompagna la nostra ricerca di una vita buona, di una vita felice: l’esperienza del male. «Vedo il bene e lo approvo, e poi faccio il male». In questo verso di Ovidio ciascuno sicuramente ritrova se stesso.
La verità circa il bene conosciuta dalla ragione è disattesa dalla libertà. Affermata nel giudizio della ragione è negata dalla scelta della libertà. È questa spaccatura che accade all’interno dell’uomo, che costituisce la sua vera tragedia, il suo male più profondo.
La proposta cristiana si esibisce come proposta di redenzione dell’uomo, di liberazione della libertà dalla sua radicale incapacità di fare la verità e costruire una vita buona.
Conclu
do con un pensiero che il beato Giovanni Paolo II amava spesso ripetere, e che può riassumere tutto questo secondo punto della mia riflessione. In Cristo l’uomo scopre la verità intera di se stesso, la verità intera circa la vita buona, e riceve la forza di realizzarla.
3. La nostra riflessione tuttavia ha uno scopo preciso: l’educazione. Non ci troviamo qui riuniti per riflettere sulla vita buona [= dottrina etica], e sulla vita buona del Vangelo [= teologia morale]. Siamo qui per riflettere sulla educazione alla vita buona del Vangelo. E più precisamente mediante la formazione al lavoro. Consentitemi dunque di dedicare in terzo ed ultimo punto della mia riflessione a questo.
Ho già avuto modo anche recentemente di riflettere a lungo su questo tema [cfr. lezione tenuta agli insegnanti il 2 settembre u.s.]. Dovrò essere breve.
Educare alla vita buona del Vangelo significa proporre la “forma cristiana” della realizzazione della propria vita. Più brevemente ed usando una formulazione paolina: proporre di vivere in Cristo.
Non è dunque una proposta educativa di complemento ad altre proposte educative, ma una proposta che investe tutta l’esistenza poiché intercetta tutte le naturali inclinazioni dell’uomo.
Non è difficile capire che il primo soggetto responsabile di questa impresa educativa è la Chiesa. Ma se due genitori, nella loro originaria responsabilità educativa, introducono il loro figlio nell’universo della fede cristiana, essi condividono con la Chiesa la responsabilità di questa. Ne sono i primi ed imprescindibili attori.
Ma, come è noto, interviene – deve intervenire – anche la scuola. Essa educa in un modo suo proprio: istruendo e, nel caso vostro, formando al lavoro.
Su questo chiamiamolo “territorio dell’educazione” abitato dalla Chiesa, dalla famiglia, dalla scuola e soprattutto dalla persona che chiede di e deve essere educata, si è abbattuto un vero tsunami che ha in un certo senso desertificato tutto il territorio; è venuto ad abitare un ospite assai inquietante. Possiamo denotarlo nel modo seguente: la separazione dell’io dalla verità [dalla libertà della verità].
Perché questa separazione è stata come uno tsunami? Perché non ha reso difficile o più difficile l’educazione [lo è sempre stata più o meno]. L’ha resa impossibile.
La favola esopiana della volpe e dell’uva è poi paradigmatica. Resa impossibile, si è finito col teorizzare che è bene non educare.
Devo purtroppo essere molto schematico e quindi eccessivamente assertorio. Me ne scuso: è la tirannia del tempo.
La separazione di cui sopra, nel contesto del discorso fatto nel primo punto, denota la condizione di una cultura che nega l’esistenza di una verità circa la vita buona, una verità che sia universalmente argomentabile e quindi condivisibile. La questione della vita beata ha risposte che non sono universalmente valide, ma valgono solo per il singolo che le ha formulate.
Perché questa condizione ha condotto a rendere impossibile l’atto educativo? C’è un testo, al riguardo, della Caritas in veritate che ci dà la risposta. «La verità, …, è logos che crea dia-logos e quindi comunicazione e comunione. La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali e storiche e di incontrarsi nelle valutazioni del valore e della sostanza delle cose». [4].
Se non esiste una verità circa il bene, capace di farmi uscire dalle mie opinioni e sensazioni soggettive, non ho alcuna possibilità di proporre nel dialogo educativo la proposta di vita buona ritenuta vera, ma delle due l’una. O non propongo nulla [mi limito ad istruire e fornire regole] o impongo colla forza dell’autoritarismo.
Poiché la seconda è senz’altro da escludere, resta la prima: non si può educare; anzi non si deve educare. È la condizione oggi non infrequente.
La nostra presenza, la presenza della scuola ha oggi il grave dovere di vigilare, come sentinelle, per difendere i nostri giovani dalla separazione nel loro io dalla verità.
La scuola del FOMAL, così come l’istruzione professionale, ha un compito unico nella situazione attuale: mostrare come formando al lavoro, come comunicando un Know how si educhi la persona.
Concludo. L’impegno della Chiesa nell’educazione, l’impegno delle sue scuole, sono chiamati ad esprimere la forza liberatrice della verità, mediante una vera educazione alla vita buona del Vangelo. È una verità al contempo e della ragione e della fede, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti cognitivi. Senza una verità circa la vita buona non c’è educazione; senza educazione non c’è futuro.