ROMA, giovedì, 28 luglio 2011 (ZENIT.org).- Leggo con attenzione le cose che scrive Enrico Berti e finora avevo spesso aderito alle sue argomentazioni. Ora leggo invece il suo scritto dal titolo “Cultura laica, cultura religiosa e realtà democratica” (in “Il futuro della democrazia”, a cura di V. Possenti, Mimesis, Milano-Udine 2011, pp. 113-129) che non convince a causa delle molte scorrettezze esposte, sia di metodo che di contenuto.
Le verità della fede
Quali sono le verità della fede per Enrico Berti? Egli dice che sono “pochissime” (p. 117) e si limitano a “la Trinità di Dio e l’incarnazione del Verbo” (Ibidem). Per fortuna che subito dopo aggiunge “e tutto ciò che questo implica”. Tutto ciò che queste due “pochissime” verità implicano non è propriamente poco. In ogni caso, secondo Enrico Berti, “non hanno molto a che fare con la filosofia, né con l’etica, né con la politica” (Ibidem). A me sembra invece da un lato che le verità della fede siano molte – anche se tutte dipendenti da una, ossia che Gesù è il Cristo – e non pochissime e che esse abbiano dei rapporti molto importanti anche con la filosofia, l’etica e la politica, anche se non direttamente in quanto la fede non è in sé né l’una né l’altra di queste cose. Del resto, anche a considerare storicamente la questione, il cristianesimo ha profondamente cambiato sia la filosofia, sia l’etica sia la politica.
L’universalità dei valori
Berti sostiene che possono esistere valori universali “purché non si tratti di valori accettabili solo per fede” (p. 117). In altri termini i valori razionali sarebbero universalizzabili, quelli della fede cristiana no. Su questo punto è bene ricordare le riflessioni di Etienne Gilson in “Metamorfosi della Gnosi”. Egli sostiene che solo il cristianesimo ha reso possibile una vera e propria “universalità”, una famiglia universale di persone libere. Viceversa la ragione, quando ha voluto creare universalità, o ha prodotto violenza o si è dovuta rassegnare alla frammentazione e alla contrapposizione, in quanto da sola – la ragione – non è in grado di reggere l’universalità. L’argomento è molto importante, in quanto la posizione di Berti è una riedizione dell’idea illuministica che la ragione accomuni e la fede religiosa divida, che si è già dimostrata sbagliata.
Jacques Maritain
Per esprimere la sua concezione di laicità, Berti cita la famosa distinzione di Maritain tra agire “da cristiani” e “in quanto cristiani”. Non tiene conto, però, delle posizioni espresse in tarda età da Maritain ne “Il contadino della Garonna” in cui il filosofo francese sostiene proprio il contrario, per esempio quando dice che “Il mondo non può essere neutro rispetto al regno di Dio. O è vivificato da esso o lo combatte”. Il che rende di fatto impossibile la distinzione netta di cui sopra.
Il Maritain del Contadino della Garonna può venire utile anche quando Berti dice di se stesso di essere cattolico ma non un “filosofo cristiano”. E’ la riproposizione della distinzione ora vista tra agire da cristiani e in quanto cristiani. Filosofare da cristiani sarebbe accettare in pieno la laicità della ragione, filosofare in quanto cristianivorrebbe dire invece derivare la ragione della fede. Ma è proprio Maritan a dire che “se per filosofare crede di dover chiudere la sua fede nella cassaforte – cioè cessare di essere cristiano mentre è filosofo – si mutila da sé, cosa davvero malsana e s’inganna, giacché queste casseforti chiudono sempre male”.
La “filosofia cristiana”
Berti dice di non essere d’accordo con l’espressione “filosofia cristiana” e di preferire l’espressione “filosofia aperta” alla fede. Il problema però è il seguente: come fa la filosofia ad aprirsi in un secondo momento e da sola alla fede? Berti, infatti, è molto chiaro nel dire che la ragione non ha bisogno della fede e che questa si aggiunge dopo. Ma se la ragione è se stessa senza la fede non troverà mai in se stessa l’esigenza di aprirsi alla fede. A meno che la fede non sia presente in essa fin dall’inizio e in modo indissolubile anche se distinto. Berti parla del “dubbio”, considerandolo appunto il segno dell’apertura alla fede. La ragione “aperta” alla fede sarebbe la ragione capace di dubitare. Ma se il dubbio ha solo un significato euristico allora non esula dal campo della ragione, è solo un dubbio razionale, come quando si dubita della validità dei propri procedimenti o dei risultati della propria ricerca. Se invece il dubbio esprime da parte della ragione una “attesa” di un supplemento di verità che la ragione non sa darsi da sé, allora è sì apertura alla fede, che però deve esserci già dall’inizio e non aggiungersi dopo. Insomma o l’apertura alla fede c’è già da sempre e non è la ragione a darsela da sola e in un secondo momento, oppure la ragione non si aprirà mai alla fede. Anche in questo caso terze vie non esistono. La filosofia cristiana è un “filosofare nella fede”, ossia è la ragione che ha la consapevolezza razionale di non poter essere pienamente se stessa se non nel rapporto con la fede. Se con la parola “aperta” Berti vuol dire questo, allora siamo d’accordo. Ma non credo che voglia dire questo.
Immanuel Kant
Il che mi sembra anche confermato dal riferimento a Kant: “Credo che tale – cioè aperta alla fede, ndr – possa essere considerata la filosofia di Kant, il quale da perfetto illuminista si guardava bene dal mescolare la fede alle sue argomentazioni di filosofia” (p. 121). Non credo che Kant possa essere preso come esempio di corretto rapporto tra ragione e fede, almeno per la fede cattolica. I motivi sono due. Il primo è che Kant separa la fede dalla conoscenza e ne fa quindi qualcosa di non motivabile né argomentabile. Con la sua filosofia, il dovere di rendere ragione della speranza che è in noi diventa impossibile. Il secondo è che egli riduce la fede a morale, come appare anche dalla frase kantiana citata dallo stesso Berti: “vi è non solamente compatibilità ma unione tra ragione e Scrittura, in modo che colui il quale segua l’una (sotto la direzione dei concetti morali) non potrò mancare di incontrarsi anche con l’altra” (cit. a p. 121). Per Kant, come si vede anche qui, la ragione e la Scrittura dicono lo stesso: i doveri morali dell’uomo. Una posizione non accettabile dalla fede cattolica.
I “due fini ultimi”
Per giustificare la distinzione tra ragione e fede e garantire uno spazio di autonomia alla laicità, Enrico Berti cita Dante Alighieri, secondo il quale l’uomo avrebbe “due fini ultimi”, da cui i due “soli” del Papa e dell’Imperatore che dovevano guidare appunto ai due fini. Ma la tesi dei “due fini ultimi” non ha fondamento teologico ed è contraria all’insegnamento della Chiesa, per la quale la vocazione dell’uomo è “unica”. La creazione e la redenzione non sono due cose separate.
Se l’uomo ha una sola vocazione è chiaro che la vita terrena è ordinata a quella eterna, e che quest’ultima non si aggiunge dopo a quella terrena ma la permea di sé e la purifica. Ciò implica che già la vita terrena sia dentro la dimensione dell’eternità, già nella luce della trascendenza e che già la natura sia misteriosamente permeata dalla grazia e sia in vista di quella.
L’aborto
Come terreno di possibile scontro tra laicità e religione Berti presenta il caso dell’aborto, con una sorprendente affermazione: “Ad esempio la condanna (attuale) della Chiesa nei confronti dell’aborto non è necessariamente l’espressione di una cultura soltanto cattolica [e fin qui niente di strano a parte quell’ “attuale”, ndr], perché non ha nulla a che fare con la fede, non discende dalla fede; non mi risulta infatti che
nel Nuovo Testamento, oggetto della fede cristiana, si parli di aborto o di bioetica” (p. 121). In seguito viene aggiunto: “L’indisponibilità della vita non è di per sé una verità di fede, non è rivelata nel Nuovo Testamento, e neanche nel Vecchio, a meno che non la si voglia ricavare dal comandamento del “non uccidere”, sul quale, peraltro, convergono tutti, credenti e non credenti” (p. 124). Viene alla luce qui un difetto fondamentale di impostazione. Oggetto della fede cattolica non è il “Nuovo Testamento”, ma ilDepositum fidei che comprende Scrittura, Tradizione e Magistero. Nel Vangelo non c’è scritto che la legge 190 sull’interruzione della gravidanza è sbagliata e non si dà un giudizio sulla legge 140 sull’inseminazione artificiale … ma questo non vuol dire che la fede cattolica, intesa nel senso che sopra ho chiarito, non lo insegni tradizionalmente.
Aristotele
Berti non esita a chiamare Aristotele pensatore “laico”. E, da laico, egli ha mostrato – con la teoria della potenza e dell’atto – che uno zigote è già un uomo in potenza. Anche se poi, lo stesso Aristotele, sosteneva – continua Berti – che era lecito l’aborto quando il numero dei figli superava il limite prefissato per la Polis, accettando in questo caso anche la soppressione dei figli nati. Ma proprio in questo modo Berti riconosce che la ragione laica, da sola, non è stata in grado di difendere la vita umana dei bambini e che per fortuna poi è arrivato il Cristianesimo a correggere il “laico” Aristotele.
Fedeltà democratica
Sulla fedeltà del credente alla democrazia Berti si esprime così: “Credo do poter dire che il criterio in base a cui promuovere o ostacolare una qualsiasi norma con lealtà democratica debba essere quello della sua coerenza o meno con la Costituzione”. Ma questo “patriottismo della Costituzione” non è accettabile per un cattolico, dato che sotto la Costituzione c’è la realtà con il suo insegnamento anche morale e quando la Costituzione dovesse contrastare la legge morale naturale, il cattolico dovrebbe essere leale prima di tutto a quest’ultima e non con la Costituzione.
Omosessuali
Come esempio di lealtà democratica di un credente, Berti fa l’esempio del riconoscimento delle coppie omosessuali, affermando: “ritengo giusto garantire anche agli omosessuali forme di unioni istituzionalizzate che ne tutelino i diritti” (p. 129), suggerendo però di non chiamarlo matrimonio perché nella Costituzione questa parola viene adoperata solo nel senso eterosessuale. Sostenendo questo, Enrico Berti si contrappone a quanto insegnato, anche di recente, dai vescovi italiani che si sono opposti anche alle cosiddette “coppie di fatto” eterosessuali e non vede, a mio parere, che anche se non lo si chiama “matrimonio”, qualsiasi riconoscimento pubblico della coppia omosessuale, oltre cioè all’ovvio riconoscimento dei diritti individuali, conferisce all’unione stessa una dignità sociale e politica che di fatto, anche se non nel nome, la equipara alla famiglia eterosessuale.
Il Crocifisso nei luoghi pubblici
Sempre a proposito di fedeltà alla democrazia, a proposito dell’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici, Berti fa la seguente proposta: “direi di lasciare il crocifisso là dove già si trova per ragioni storiche (anche perché il toglierlo, lasciandone l’impronta in bianco sul muro, sarebbe antipatico), ma di non metterlo nelle scuole pubbliche di nuova costituzione” (p. 129). Berti non tiene conto di due aspetti di fondamentale importanza: il vuoto lasciato dal crocifisso non è solo “antipatico”, è il “vuoto-del-crocifisso”. La mancanza del crocifisso non è una cosa neutra, indica che quella realtà si costruisce senza il crocifisso. Inoltre Berti non tiene conto che l’esposizione del crocifisso non dipende solo da motivi “storici”, ma per i contenuti di verità umana e cristiana cui esso rimanda. Il punto fondamentale è: si ritiene che quei valori siano indispensabili per la costruzione di una società veramente umana o no? Se sì, la proposta di non metterli nelle scuole di nuove costruzione è addirittura ridicola. Come il cristianesimo avesse cessato di essere fondamentale, come invece è stato in passato.
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*Stefano Fontana è direttore dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan” sulla Dottrina Sociale della Chiesa (http://www.vanthuanobservatory.org/).