NAIROBI (Kenya), lunedì, 21 febbraio 2011 (ZENIT.org).- La Chiesa non giudica le persone malate di AIDS. Piuttosto, essa cerca di essere per tutti una fedele compagna e quindi ne rimane “affetta”, cioé coinvolta per simpatia.
Questa è una delle riflessioni proposte dal Vescovo Alfred Kipkoech Arap Rotich durante il programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre.
In questa intervista, monsignor Rotich prende in considerazione diversi aspetti del problema dell’AIDS in Kenya, parla anche dei bambini abbandonati e spiega come i kenioti abbiano compreso che l’uso del condom non rappresenta la soluzione all’AIDS.
Il suo nome, Rotich, suona molto germanico. Qual è il suo significato?
Mons. Rotich: Nella mia famiglia in Kenya, Rotich significa che mio padre è nato nel momento in cui le mucche erano pronte per la mungitura, ovvero verso le tre del pomeriggio. Io ho preso le ultime sei lettere del nome di mio padre e mi chiamo Arap, figlio di Rotich, che in sostanza sta a significare un pastore che guida un gregge, e in effetti è ciò che io oggi faccio nella Chiesa.
Eccellenza, lei è anche colonnello delle forze armate in Kenya. Come lo è diventato?
Mons. Rotich: Lo sono diventato svolgendovi il ministero della Chiesa. È parte integrante del nostro lavoro pastorale nel Paese: che anche alle forze armate sia data la possibilità di vivere la propria fede e di avere un cappellano indigeno. Dopo 10 anni da cappellano sono stato ordinato Vescovo.
Il Kenya è una delle locomotive dell’Africa, eppure allo stesso tempo la grande maggioranza della popolazione vive al di sotto della soglia di povertà. Perché tanta disparità tra la ricchezza e la povertà in Kenya? Come si è arrivati a questa situazione?
Mons. Rotich: Quando le persone sono egoiste e devono condividere le cose, cercano di riservare per se stesse le cose migliori. Ma credo che questo abbia costituito l’occasione per una riflessione e un discernimento su come ciò avvenga. Quando esiste un certo livello di corruzione e di egoismo, esiste già una demarcazione, esiste già una linea che divide i ricchi dai poveri. La ricchezza, così intesa, può essere superficiale, perché la ricchezza di un Paese è data dal bene che è presente nella società e a cui ognuno può attingere. Quindi questo è stato un problema e sono convinto che tutti i leader debbano occuparsi di questa questione.
Cosa fa la Conferenza episcopale rispetto alla questione della povertà e della disparità di ricchezze?
Mons. Rotich: I vescovi hanno preso l’iniziativa di scrivere lettere pastorali per lanciare appelli alla società, soprattutto ai gruppi dirigenti, ma anche a tutti cittadini del Paese, affinché venga messa al centro la persona umana; e affinché la dignità dell’individuo venga messa al centro dello sviluppo. In questo modo, se mio fratello e mia sorella stano soffrendo, tutti gli occhi dovrebbero volgersi verso di loro e fare proprio il loro problema.
Esiste un continuo dialogo e una costante attenzione alla questione dell’AIDS, che ha colpito l’Africa in modo particolarmente duro, anzi più duramente rispetto a tutti gli altri continenti. Circa 300 kenioti muoiono ogni giorno a causa dell’AIDS. Perché l’AIDS è così forte in questo Paese?
Mons. Rotich: Ci sono diversi motivi per cui l’AIDS si sta diffondendo giorno dopo giorno. Ma credo che il Governo, la società civile, le chiese, abbiano preso delle misure per affrontare la questione. Non vogliamo giudicare le persone malate, ma vogliamo accompagnarle fedelmente. Vogliamo essere di fedele compagnia ai malati, per esserne affetti noi stessi e lasciarci coinvolgere per simpatia. Dobbiamo muoverci noi verso di loro, per poter anzitutto assicurare loro che non tutto è perduto.
Questa è una questione importante perché leggevo che in Kenya, molte donne, per esempio, hanno paura di fare le analisi, perché se il marito, che è l’unico a portare a casa lo stipendio, dovesse scoprirle malate, potrebbe decidere di andarsene. Quindi la questione dell’accompagnamento da parte della Chiesa, immagino, sia molto importante.
Mons. Rotich: Sì. Esistono una serie di progetti e iniziative che sono state prese dalla Chiesa. Se si va nella città di Nairobi, esiste un programma, soprattutto nel decanato orientale, sponsorizzato da organizzazioni per i bambini come Maryknoll, sotto la supervisione di sacerdoti esperti e operatori sanitari.
La Chiesa è presente e chiede alle persone di non temere e di andare a farsi le analisi. Ovviamente, poiché si tratta di una malattia associata a rapporti extraconiugali, la gente non verrà direttamente per quello, perché verrebbe giudicata socialmente. Ma questa pressione sociale sta scemando gradualmente e le persone vengono incoraggiate a fare le analisi anche durante i corsi prematrimoniali. Durante tutte le sessioni gli viene data l’opportunità dalla Chiesa e gli viene assicurato che non è la fine del mondo.
Sì, vi sono state situazioni in cui il marito ha ripudiato la moglie, ma esistono servizi di consulenza per questi casi, che contribuiscono ad alimentare un clima di comprensione e di empatia tra le persone.
Uno dei grandi problemi legati all’AIDS riguarda i figli. Molti di questi bambini sono diventati capofamiglia.
Mons. Rotich: Sì, è una grande sfida per noi. Ma ancora, nella società africana siamo più o meno una comunità. Se uno ne è colpito – se gli è morto un genitore o entrambi i genitori – la società gli viene in soccorso; ma ora, che è in atto una grande migrazione verso le città, quando questo avviene, spesso i bambini vengono lasciati soli.
Questo aspetto della comunità viene meno nelle città?
Mons. Rotich: Sì ed è proprio questo uno dei valori che vorremmo fosse recuperato: il fatto che siamo una famiglia. Così, quando ci sono degli orfani, la Chiesa cerca di fare del suo meglio e di usare ogni risorsa disponibile. E la prima risorsa è l’empatia. Vediamo congregazioni di suore lavorare quotidianamente per gestire queste situazioni e sollecitare gli sforzi della comunità in favore dei bambini.
Questa è la risposta della Chiesa, ma vi è stata la risposta del mondo – per così dire – o di molte organizzazioni internazionali, che hanno proposto come soluzione il preservativo. Voi siete a capo di un movimento di protesta contro la promozione del condom in Kenya. Perché il condom non rappresenta la soluzione contro l’HIV/AIDS?
Mons. Rotich: Abbiamo constatato che non era la soluzione. Abbiamo invitato i giovani a non dare ascolto ai promotori del preservativo perché abbiamo visto che gli stessi cercavano di educare la gente, anche ad un’età precoce, ad avere rapporti sessuali. Abbiamo constatato che il livello morale del Paese stava diminuendo. Quindi, come contributo educativo, è stato necessario – soprattutto da parte dei pastori – pronunciarsi contro questi aspetti e promuovere l’astinenza, che è ora un programma che abbiamo introdotto nelle scuole.
Ora il Governo, il Ministero dell’istruzione, sta prestando maggiore attenzione al fatto che il condom non rappresenta la soluzione e che un sistema valoriale può con il tempo rafforzare la passione interiore per portarla a dire: per questo posso aspettare. C’è un tempo per tutto, anche un tempo per aspettare la vita matrimoniale. Così, abbiamo detto, iniziamo con i bambini, posto che sono loro i primi ad essere colpiti. Non dateci un percorso o una road map per fornire cose che sono estranee alla nostra cultura, estranee al nostro senso valoriale.
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Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per “Where God Weeps”, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l’organizzazione inte
rnazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.
Where God Weeps: www.WhereGodWeeps.org
Aiuto alla Chiesa che soffre: www.acn-intl.org