di Tommaso Cozzi*
ROMA, giovedì, 3 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Aristotele definisce l’etica come “scienza pratica”[1], in quanto ritiene che essa esprima un sapere causale che ha come oggetto determinazioni qualitative del “reale” che ne investigano l’essenza [2], non si tratta di un’analisi fatta dal punto di vista della pura e semplice contemplazione (come per quanto riguarda le scienze teoretiche, quali la matematica, la fisica e la filosofia primaria) né fatta dal punto di vista della “produzione” (come avviene in ambito poetico, ovvero nelle arti), ma trattasi di tutto ciò che riguarda la prassi, l’azione [3].
Il VI libro dell’Etica Nicomachea di Aristotele contiene la trattazione delle virtù dianoetiche, che sono proprie dell’anima razionale; esse sono la scienza, l’arte, la saggezza, l’intelligenza, la sapienza.
La scienza è “una disposizione che dirige la dimostrazione” ed ha per oggetto ciò che non può essere diversamente da quello che è, vale a dire il necessario e l’eterno; l’arte, invece, è “una disposizione accompagnata da ragionamento vero che dirige il produrre” ed è diversa, pertanto, dalla disposizione che dirige l’agire, in cui consiste la saggezza, che è definita “come l’abito pratico razionale che concerne ciò che è bene o male per l’uomo” ed ha una natura mutevole al pari dell’uomo; l’intelligenza è un abito razionale che ha la facoltà di intuire i principi primi di tutte le scienze, nonché i “termini ultimi“, i fini, cioè, a cui deve indirizzarsi l’azione, e insieme con la scienza costituisce la sapienza, che è il grado più elevato e universale del sapere, in quanto è “insieme scienza e intelligenza delle cose più alte per natura” e, come tale, è ben distinto dalla saggezza.
Inoltre Aristotele, in questo testo, evidenzia la dicotomia esistente tra le realtà “che non possono essere diverse da quello che sono” ( es. fenomeni naturali ) e quelle “che possono essere diversamente da quello che sono” ( es. l’azione,l’agire ).
Fatta questa premessa, si può affermare che l’etica è la “scienza dell’agire” che cerca di capire come l’azione si produce, non limitandosi ad una semplice analisi descrittiva,cercando di trovare quindi solo i meccanismi matrice dell’azione, ma approfondendo gli effetti dell’azione, la loro natura e le loro finalità. Aristotele inoltre tratta la questione dell’etica con riferimento all’aspetto economico, escludendo che una vita dedita al guadagno e al perseguimento della ricchezza, possa portare al sommo bene, dato che il perseguimento del lucro implica di dover far fronte alle necessità di sopravvivenza e che il denaro è un mezzo, non un fine, essendo solo il bene supremo il fine che si vuole di per se stesso [4].
L’economia, diversamente da altre scienze, è legata sia alla teoria della razionalità sia all’etica, pertanto è difficile tenere separati i problemi metodologici che hanno per argomento il carattere dell’economia dai problemi valutativi che riguardano le scelte individuali, le loro condizioni e le loro conseguenze. L’economista non può essere estraneo alla morale e utilizzare l’economia come semplice tecnica, dato che per poter fornire strumenti tecnici alla politica, ad esempio, deve collegare la teoria economica ai concetti morali che sono impiegati dai politici. Per fare questo deve essere in grado di orientarsi in tematiche quali i bisogni,l’equità, le opportunità, la libertà e i diritti.
Ma un rapporto tra etica ed economia fino agli anni Novanta risultava di difficile attuazione sia perché le leggi nazionali sembravano incapaci di operare a livello transnazionale e globale, sia perché molti governi tendevano a mitigare le regolazioni stesse in favore di un liberalismo che permettesse una maggiore competitività . Questo ha quindi favorito il dilagare di determinati fenomeni quali lo sfruttamento del lavoro minorile, l’aumento della povertà in molti paesi come l’America Latina, le crisi finanziarie come quelle della Parmalat e della Wordcom e sicuramente ha comportato anche l’indebolimento delle garanzie e della stabilità del lavoro.
Un’ impresa dovrebbe di fatto adottare un comportamento socialmente responsabile, monitorando e rispondendo alle aspettative economiche, ambientali, sociali di tutti i portatori di interesse (stakeholders), riuscendo anche a raggiungere l’obiettivo di conseguire un vantaggio competitivo e la massimizzazione degli utili di lungo periodo. Se si prende in considerazione un qualsiasi prodotto si può notare, infatti, che non viene apprezzato unicamente per le caratteristiche qualitative esteriori o funzionali; il suo valore è stimato in gran parte per le caratteristiche non materiali, quali le condizioni di fornitura, i servizi di assistenza e di personalizzazione, l’immagine ed infine la storia del prodotto stesso. All’interno del mercato globale e locale, le imprese non hanno un’esistenza autonoma stante, ma sono enti che vivono e agiscono in un tessuto sociale che comprende vari soggetti, sicuramente attenti all’operato imprenditoriale. Ma il comportamento più o meno etico di un’impresa interessa, soprattutto, oltre che gli stakeholder, tutti i cittadini, ai quali non bastano astratte dichiarazioni di principi e valori: essi esigono ormai un impegno quotidiano e credibile, frutto di una precisa politica manageriale e di un sistema aziendale organizzato a tal fine.
Durante il Consiglio Europeo di Lisbona, la Commissione Europea sottolineò il ruolo che poteva svolgere la responsabilità sociale delle imprese nella gestione delle conseguenze dell’integrazione dell’ economia e dei mercati sull’occupazione e sul settore sociale e nell’adeguamento delle condizioni di lavoro alla nuova economia.[5] Venne redatto così nel 2001 il Libro Verde intitolato: “Promuovere un quadro europeo per la responsabilità sociale delle imprese”. Il progetto era quindi quello di costruire un’economia della conoscenza dinamica e competitiva basata sulla coesione e che facesse appello proprio al senso di responsabilità sociale delle imprese per arrivare a raggiungere alcuni obiettivi quali : una migliore organizzazione del lavoro, delle pari opportunità, l’ inserimento sociale e uno sviluppo durevole. L’iniziativa del CSR è nata in seguito ad alcune problematiche : la globalizzazione, gli scandali finanziari, il fallimento del sistema di regulating business e la persistenza del conflitto di interessi. Prima della discussione sul Corporate Social Responsibility a livello comunitario, ogni paese dell’Unione Europea aveva attuato un proprio approccio al CSR a seconda delle singole caratteristiche del proprio Stato: cercando quindi di seguire il modello di capitalismo vigente, il grado di intervento dello Stato, le iniziative pubbliche e quelle private. Proprio le differenze strutturali di ogni singolo Paese avevano condotto ad una diversificazione del CSR partendo dall’utilizzo del top-down in Danimarca e Francia ed arrivando al bottom-up utilizzato in Gran Bretagna e in Italia[6]. La tendenza odierna è la convergenza degli approcci nazionali verso il modello auspicato dalla Commissione Europea, nel quale per CSR si intende la responsabilità sociale delle imprese nei confronti della “società” nel suo insieme.
[1] Cfr. Aristotele, Metafisica, VI, cap. 1. [2] Cfr. Aristotele, Analitici Posteriori, I, cap. 2, pag. 71. [3] Cfr. M.E. Di Giandomenico, Management Etico, principi e fondamenti, Milano,Giuffrè Editore, 2007 [4] Idem. [5] www.eur-lex.europa.eu, Libro Verde, Commissione Europea, 2001 [6] Quando le iniziative che riguardano il CSR vengono intraprese dai soggetti pubblici, si parla di top-down; quando invece derivano dalle stesse imprese si parla di bottom-up.——–
*Il prof. Tommaso Cozzi, docente presso la Facoltà di Scienze della Formazione di “Economia e Gestione delle Imprese” all’Università di Bari.