ROMA, sabato, 9 maggio 2009 (ZENIT.org).- “Io sono la vite vera e il Padre mio è l’agricoltore. Ogni tralcio che in me non porta frutto, lo taglia, e ogni tralcio che porta frutto, lo pota perché porti più frutto. Voi siete già puri a causa della parola che vi ho annunciato. Rimanete in me e io in voi. Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me. Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla. Chi non rimane in me viene gettato via come il tralcio e secca; poi lo raccolgono, lo gettano nel fuoco e lo bruciano. Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi, chiedete quel che volete e vi sarà fatto. In questo è glorificato il Padre mio: che portiate molto frutto e diventiate miei discepoli” (Gv 15,1-8).

Oggi Gesù continua a ripeterci una parola particolare, il verbo rimanere: per ben dieci volte in pochi versetti ce lo raccomanda come cosa assolutamente necessaria, imprescindibile, vitale (1-11). Rimanere è parola-chiave non solo di questa V Domenica di Pasqua, ma di tutto il “tempo pasquale”, divenuto il tempo stesso della storia umana, tempo che rimarrà “tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Infatti, lo Spirito Santo effuso il giorno di Pasqua, è rimasto e rimane con noi come presenza perenne della luce, della vita, dell’amore del Signore risorto.

Il contesto del Vangelo odierno è il grande discorso di addio che Gesù rivolge ai discepoli durante l’Ultima Cena (cc. 13-17), espressione del suo amore “fino all’estremo” (Enciclica “Ecclesia de Eucharistia”, n.11).

1) Cerchiamo anzitutto di vedere cosa significa “rimanere” per Gesù.

Il termine indica quella profonda, eterna comunione di vita e amore che lega inseparabilmente Padre e Figlio, e li fa essere un cuore solo, un solo volere, un solo “Io”, come Gesù rivela a Filippo: “Chi ha visto me ha visto il Padre..non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me?” (Gv 14,9-10). Gesù sta affermando che la sua persona divina rimane fissa nella Sorgente paterna ed eterna pur essendone uscita per venire nel nostro mondo a rivelare il Padre, come annuncia Giovanni nel Prologo: “Dio, nessuno lo ha mai visto: il Figlio unigenito, che è Dio ed è nel seno del Padre, è lui che lo ha rivelato” (Gv 1,18). Facciamo allora un secondo passo.

Per Gesù, in un certo senso, non è stata cosa nuova l’esperienza del grembo di Maria, dato che Egli fin dal principio si trovava, per così dire, in quel “luogo materno” che è il “Seno del Padre”, Fonte increata di quell’amore di Maria da cui è stato accolto ed avvolto. Se il Figlio unigenito “è nel seno del Padre” mentre sta parlando ai discepoli, significa che “rimanere” non riguarda le coordinate spazio/tempo, ma anzitutto la comunione profonda, l’“essere in”, non per coincidenza materiale di luogo, ma per comunione spirituale dell’io: un cuore solo e un’anima sola. Si tratta di una relazione ontologica, esistenziale, reciprocamente vitale. Per Gesù, è il rimanere intrinseco della relazione col Padre, eternamente sussistente e generante. Somiglia al fatto che un figlio rimane per sempre figlio, un genitore rimane sempre padre/madre, un coniuge rimane sempre sposo/sposa.

2) Cosa significa “rimanere” per noi?

Il significato fisico della parola ha a che fare con lo spazio e con il tempo: è stare fermi in un luogo, restare lì senza muoversi o allontanarsi, al modo di una casa nelle sue fondamenta, di un inquilino nell’appartamento, di un disabile nella carrozzina. Rimanere come clausura perenne, o come permanenza temporanea: “Rimani con noi, Signore, perché si fa sera” (Lc 24,29).

C’è poi il significato morale e spirituale: rimanere come stabilità morale, affettiva, come perseveranza e fedeltà, coerenza, comunione. Tutte queste caratteristiche corrispondono al rapporto del credente con Gesù (“Se rimanete in me e le mie parole rimangono in voi,..(…) rimanete nel mio amore!”), rapporto che il Signore fa intendere per mezzo del simbolo dinamico della vite, piantata e potata dal contadino in vista del suo frutto squisito.

Se ora guardiamo all’icona della gravidanza umana, possiamo riconoscere in essa non solo entrambi i significati accennati, ma anche una analogia con il rimanere divino della relazione Padre/Figlio. Il bambino, che è fisicamente nella madre, non vi è meramente contenuto come se il grembo fosse un’incubatrice, ma sta in lei in forza e grazia di un’immanenza reciproca di vita e amore, che gli da sicurezza, protezione, gioia e crescita integrale del corpo. Il grembo dove sta è anzitutto il cuore della mamma, sotto il quale e nel quale egli è stato concepito, da Dio e dai genitori.

La mamma nutre e plasma il frutto del suo seno totalmente orientata a lui nell’amore, e lo fa non solo mediante la trasmissione genetica e il sangue del cordone ombelicale, ma per mezzo della comunicazione di sè, del suo io, dei suoi sogni, del suo cuore per le vie misteriose che collegano la sua anima a quella del suo figlio, oltre la coscienza che entrambi ne possono avere. E’ a questo livello che va riferito il rimanere profondo.

Per comprenderne meglio il senso divino, inteso da Gesù, ascoltiamo questa precisazione di san Tommaso d’Aquino: “Le cose corporali/materiali si dicono essere l’una nell’altra perché sono contenute fisicamente l’una dentro l’altra; le realtà spirituali, invece, si dicono essere l’una nell’altra in quanto l’una “contiene” operativamente l’altra, quale forza attiva.(…) Dio è in ogni cosa per il fatto che ad ogni cosa dà l’essere e la natura, l’agire e l’ operare. Dio perciò è nelle cose attivamente”(cfr. C. M. Martini, Il coraggio della speranza, 1998, p. 221).

Riconduciamo ora questa dottrina all’affermazione di Gesù: “Io sono la vite vera..rimanete in me e io in voi” (Gv 15,1.4).

Vuol dire: Io sono la Fonte della vostra vera vita, come lo è il sole per ogni forma di vita sulla terra e come lo è la vite per il tralcio ed ogni grappolo d’uva.

E Gesù non usa la metafora della vite/tralcio soltanto per significare una relazione di appartenenza, bensì anche e soprattutto in riferimento all’efficacia divina della grazia santificante che ci unisce a Lui, vivificando la nostra anima spirituale, la coscienza, l’intelligenza e la volontà, in una parola: l’intera nostra persona.

Egli sembra dire: se volete conoscere, gustare e mettere in pratica la verità di tutto ciò che siete e di tutto ciò che esiste, dovete rimanere in me, altrimenti sareste come lampade o motori staccati dalla corrente elettrica. Rimanete in me e allora Io rimarrò in voi come luce e forza operativa, come amore, verità e libertà, e vi comunicherò l’abbondanza della mia vita, e sarete ciò che siete e dovete essere: uomini, figli di Dio!

A tale metafora essenziale e vitale di base, l’icona della vite aggiunge la intrinseca fecondità del frutto, dipendente dalla relazione con-in Gesù: “Io sono la vite, voi i tralci. Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto, perché senza di me non potete far nulla” (Gv 15,5). “Solo se il tralcio è nella vite, esso è vitale e fruttifero. Allargando il discorso: solo chi è in Gesù è persona autentica. Chi non è in Gesù, è sterile. L’uman ità è chiamata ad essere in Gesù proprio per portare frutto di vitalità, di fecondità, di irradiazione, di raggiungimento dei suoi ideali. Se non è in Gesù si secca, appassisce. E’ un insegnamento molto forte per il destino dell’uomo: fino a quando l’uomo non è tralcio di Gesù, non è se stesso!” (C. M. Martini, id., p. 221).

In altre parole: ogni uomo che nasce su questa terra potrà realizzare nel bene e nella felicità la propria vita solamente innestando se stesso, come tralcio, in Gesù-vite, mediante la fede. Quest’ultima affermazione inquadra il “rimanere” nella relazione essenziale della figliolanza divina, in Cristo, “concepita” nell’acqua del Battesimo. Allora vediamo che il “rimanere” di cui parla il Signore è necessità assolutamente vitale per l’uomo, del tutto conforme alla dignità e al significato della sua persona e della sua vita. Un “rimanere in” equiparabile alla vite (anche il tralcio staccato dal ramo muore, come un aborto), ma elevata ad un livello ontologico soprannaturale, dato che l’uomo è un tralcio divinizzato.

L’icona della vite sembrerebbe meno pregnante rispetto a quella del grembo, ma se si considera il significato biblico del simbolo della vigna, ben noto agli ascoltatori di Gesù, non è più così. Basta leggere i profeti: Osea, Isaia, Geremia, per contemplare l’alleanza divina come “grembo” fedele di Dio, che sempre accoglie Israele suo “figlio”. Una storia d’amore fecondo!

Sposo e vignaiolo, il Dio di Israele ha la sua vigna, che è il suo popolo. Dio ama la sua vigna, e gioisce per lei come lo sposo gioisce per la sposa. La sposa-vigna, però, ha continuamente tradito l’alleanza nuziale con lo Sposo, prostituendosi e meritando di venire devastata. Ma ecco l’incredibile risposta del Dio fedele: “Ciò che Israele non ha potuto dare a Dio, glielo da’ Gesù. Egli è la vite autentica, degna del suo nome. E’ stato piantato dal Padre suo, è stato circondato di cure e mondato affinchè porti un frutto abbondante (Gv 15,1s). E di fatto porta il suo frutto dando la propria vita, versando il proprio sangue, prova suprema d’amore (Gv 15,9.13); ed il vino, frutto della vite, sarà, nel mistero eucaristico, il segno sacramentale di questo sangue versato per suggellare la nuova alleanza; sarà il mezzo per partecipare all’amore di Gesù, per rimanere</i> in lui (Gv 15,4.9s)” ( X. L. Dufour, Dizionario di teologia biblica, pp. 1394-5).

A più di questo non poteva giungere la Divina Misericordia! Perciò ognuno può e deve accostarsi con piena fiducia al suo trono: “..Davanti a lui rassicureremo il nostro cuore, qualunque cosa esso ci rimproveri. Dio è più grande del nostro cuore e conosce ogni cosa” (1Gv 3, 19-20).

Quale immensa speranza e consolazione donano queste parole alla mamma che ha abortito! Tuttavia, ella potrebbe di nuovo tremare continuando la lettura: “..se il nostro cuore non ci rimprovera nulla, abbiamo fiducia in Dio...” (3,21). Sembra esserci contraddizione con l’affermazione precedente, ma è solo apparente. Infatti questo secondo rimprovero della coscienza (per la Bibbia il cuore è la coscienza davanti a Dio) non sembra riguardare azioni commesse, ma solo il rimanere della fiducia in Dio e della fede nella onnipotenza della sua Misericordia.

Scriveva santa Teresa di Gesù Bambino: “Sì, lo sento, anche se avessi sulla coscienza tutti i peccati che si possono commettere, andrei con il cuore spezzato dal pentimento, a gettarmi tra le braccia di Gesù, perché so quanto ami il figliol prodigo che ritorna a Lui” (Opere complete, Manoscritto “C”, p. 278).

Per rimanere in una simile fiducia non è necessario somigliare a Tersa nel sentimento, ma solo imitarla nella decisione concreta del pentimento, decisione che si dimostra anzitutto rimanendo perseveranti nell’ascolto quotidiano della Parola di Gesù e nella preghiera, con l’umile e sincero impegno di iniziare un cammino di conversione e rinuncia ad ogni abitudine che dispiaccia al Signore, in quanto contraria alla sua volontà, e secondo il consiglio di una guida spirituale cui chiedere: “..E qualunque cosa chiediamo, la riceviamo da lui, perché osserviamo i suoi comandamenti e facciamo quello che gli è gradito” (1Gv 3,22).

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* Padre Angelo del Favero, cardiologo, nel 1978 ha co-fondato uno dei primi Centri di Aiuto alla Vita nei pressi del Duomo di Trento. E' diventato carmelitano nel 1987. E' stato ordinato sacerdote nel 1991 ed è stato Consigliere spirituale nel santuario di Tombetta, vicino a Verona. Attualmente si dedica alla spiritualità della vita nel convento Carmelitano di Bolzano, presso la parrocchia Madonna del Carmine.