ROMA, giovedì, 21 maggio 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’editoriale di Claudio Gentili, Direttore della Rivista di studi e ricerche sulla dottrina sociale della Chiesa, “La Società”, sul tema “Crisi economica e DSC” (n 2-2009, www.fondazionetoniolo.it/lasocieta).
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La crisi finanziaria e economica globale che stiamo attraversando è davvero grave. I poveri, i disoccupati, i più svantaggiati, i paesi del Terzo Mondo sono le vittime di questa crisi che colpisce famiglie e imprese e prima dell’esercizio del discernimento ci chiede l’esercizio della solidarietà.
Pur nella gravità della situazione non dobbiamo indulgere al pessimismo. Alcuni osservatori attendibili notano i primi segnali di ripresa. Ma uscire da questa crisi non sarà né facile, né indolore.
Riconoscere cosa è successo invece è facile, anche se gli economisti non hanno previsto questa crisi. I dati sono noti: espansione monetaria, espansione creditizia, trasferimento del rischio, bolle speculative, titoli tossici, fallimenti di banche e di imprese. Di “bollespeculative”, la storia ne ricorda molte a partire da quella scoppiata alla Borsa di Amsterdam nel 1637 quando il prezzo dei bulbi di tulipani (che erano arrivati a costare intere fortune) crollò di colpo portando alla rovina non soltanto gli speculatori ma l’intera economia olandese.
La storia e l’origine di questa crisi sono soggetti a interpretazioni molto diverse.
Molti la paragonano alla crisi del 1929. Alcuni la pongono in relazione al mitico 1989 e favoleggiano di una sconfitta dell’economia di mercato nel 2009 speculare alla sconfitta dell’economia collettivista e del “socialismo reale”simbolicamente rappresentata dal crollo del muro di Berlino.
Il tema della crisi globale che investe oggi l’economia e la finanza è stato al centro di una delle otto domande rivolte al Pontefice dai parroci di Roma il 26 febbraio scorso. Sollecitato dal parroco di una comunità della periferia romana, Benedetto XVI ha accennato alla sua prossima enciclica sociale, proponendo una lettura sintetica della crisi fondata su due livelli di analisi. Il primo, quello macroeconomico, mette in luce i guasti di un sistema basato sull’idolatria del denaro e sull’egoismo, che oscurano nell’uomo ragione e volontà conducendolo su strade sbagliate. È qui che la voce della Chiesa è chiamata a farsi sentire — a livello nazionale e internazionale — per contribuire a correggere la direzione. E mostrare così la via della retta ragione illuminata dalla fede: in definitiva, la via della rinuncia a se stessi e dell’attenzione ai bisogni degli altri.
Quanto al secondo livello, quello microeconomico, il Pontefice ha ricordato che i grandi progetti di riforma non possono realizzarsi compiutamente senza un cambiamento di rotta individuale. Per il Papa è anche sul terreno della riflessione sull’economia che bisogna saper rispondere, infatti, ha aggiunto, “i grandi moralismi non aiutano se non sono sostanziati con la conoscenza della realtà che aiuta a capire cosa si può in concreto fare per cambiare la situazione”.
Eppure quante reazioni moralistiche abbiamo ascoltato? Quante semplificazioni? Quante fughe nell’ideologia? È faticoso ragionare. È più facile servirsi degli slogan. Ma l’invito del Papa al rigore nella conoscenza della realtà non va lasciato senza risposte.
In un lucido libro, appena uscito, dal significativo titolo “Settimo non rubare. Furto e mercato nella storia dell’Occidente” lo storico Paolo Prodi offre una convincente confutazione ai “becchini del mercato” spiegando che il furto nasce dal mancato rispetto delle regole del mercato, inteso fin dal Medioevo come un forum dove la collettività decide il giusto prezzo. Sulla differenza tra capitalismo e libero mercato e sul giudizio positivo su quest’ultimo da parte della Chiesa al n. 43 della Centesimus Annus possiamo andare a rileggere parole insuperate per chiarezza e equilibrio.
Oggi il corretto rapporto tra Stato e mercato è insidiato dalla globalizzazione. L’economico tende a inglobare in un nuovo monopolio del potere tutta la vita dell’uomo. Le grandi truffe finanziarie (Enron, Parmalat, bond argentini etc) sono solo la punta di un iceberg che nasconde una valanga di furti impuniti.
È d’obbligo, d’altro canto, ricordare che Adam Smith prima della “Ricchezza delle nazioni” ha scritto la “Teoria dei sentimenti morali”. Se il denaro diventa un idolo e si dimenticano i sentimenti morali, il mercato va a rotoli. È solo attraverso il dominio delle passioni, inserendo l’etica come base del mercato che si può costruire un efficace equilibrio tra Stato e mercato, ricordando che il mercato nasce davanti al municipio, cioè funziona in un sistema di regole. Non sono mancati nei secoli dell’età moderna i tentativi di soffocare quella istituzione della libertà che è il mercato, per ricostruire il monopolio del potere statolatrico: gli Stati teocratici, lo Stato imprenditore del Settecento, lo Stato-nazione imperiale dell’Ottocento e da ultimo le religioni secolarizzate, politico-imperiali, del comunismo e del nazifascismo.
La non coincidenza tra potere politico e potere economico e la compresenza di norme etiche e norme di diritto positivo all’interno del mercato ha permesso lo sviluppo delle nostre libertà costituzionali.
Vi è un nuovo equilibrio da ripensare e da ricreare tra bene comune e libertà d’impresa, tra indirizzo politico e opportunità economiche. Tra i fiumi d’inchiostro dedicati a capire la crisi mi ha colpito il riferimento che è stato fatto da un uomo della finanza alla Dottrina Sociale per capire la crisi.
In alcuni editoriali sull’Osservatore Romano, infatti, il banchiere Ettore Gotti Tedeschi ha scritto che la crisi è frutto di una colpevole rinuncia all’esercizio di uno dei principi basici della Dottrina Sociale della Chiesa: il principio di sussidiarietà. Questa colpevole mancanza di sussidiarietà è rintracciabile nei fattori che hanno scatenato negli USA la crisi finanziaria. Esiste infatti una precisa responsabilità dello Stato nella promozione di una crescita economica fittizia, nella tolleranza ai limiti della complicità verso l’uso di strumenti finanziari “tossici”, nella forzatura di un consumismo a debito delle famiglie che dai prodotti di largo consumo si è massicciamente riversato verso gli immobili.
In sostanza i “consumatori del mondo”, le famiglie americane, dopo avere comprato a debito per anni i prodotti di largo consumo prodotti a basso costo dalle economie in crescita cinese e indiana, hanno indirizzato le loro preferenze nell’acquisto a debito delle case, colpevolmente guidati da chi voleva “taroccare” la riduzione del PIL frutto del rallentamento della crescita dell’economia USA che risale agli anni Ottanta.
Quello che da noi accade per le automobili (acquisti oggi con zero costi e cominci a pagare tra sei mesi in comode rate) per le famiglie americane da qualche anno è avvenuto per l’acquisto delle abitazioni.
In sostanza l’acquisto a debito delle case e gli strumenti finanziari “tossici” che lo accompagnavano drogavano il PIL. Qualcosa di analogo a quanto da noi avviene quando si rinvia troppo a lungo la riforma delle pensioni mettendo sulle spalle delle generazioni future i costi delle nostre scelte; oppure quando si risparmia sulla sicurezza e si costruiscono case che crollano alla prima scossa di terremoto; oppure quando si rinuncia a coltivare il creato e si consegna un mondo inquinato ai nostri figli.
Nella stessa direzione di un approfondimento del principio di sussidiarietà si pone l’acuta riflessione del Presidente del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace. Il Cardinale Martino, intervenendo alla recente conferenza internazionale su “Valori etici e svi
luppo integrale della persona nell’era della globalizzazione” ha affermato che “mentre le grandi banche sono in crisi o puntellate direttamente o indirettamente dagli Stati, si riscopre la vecchia banca dislocata sul territorio, le casse rurali e le banche di credito cooperativo, che concedono prestiti conoscendo la persona, la sua famiglia e la sua storia” contrariamente a quanto hanno fatto i grandi istituti di credito. “Riscoprire l’importanza del microcredito, dei laboratori artigianali che garantiscono i posti di lavoro anche nelle difficoltà e fanno da ammortizzatori sociali – ha aggiunto il Cardinal Martino – sono esempi di fiducia, di collaborazione e di solidarietà.
Tutto questo fa pensare che il momento della crisi debba essere anche il momento della speranza”.
La situazione che stiamo vivendo rischia di accorciare il nostro sguardo. Le difficoltà dell’oggi ci impediscono di scommettere sul futuro. Eppure ogni crisi è un passaggio. E non dobbiamo “sprecare” la crisi, ma sfruttarla per edificare un futuro più umano.
Le crisi economiche sono cicliche e rendono evidenti le conseguenze dei nostri atti. Le crisi sono come le tempeste. Per certi versi sono inevitabili, ma quando arrivano spingono l’equipaggio a essere unito per vincere le difficoltà. Le crisi assomigliano anche alle indigestioni: per superarle bisogna diventare più virtuosi.
Ecco, dalla crisi ci si può aspettare un’Italia meno litigiosa e più solidale, in primo luogo con chi perde il lavoro e con le famiglie colpite dalle conseguenze più immediate. Bene ha fatto Mons. Betori, arcivescovo di Firenze, accanto alla campagna di solidarietà con le famiglie colpite dalla disoccupazione promossa dalla CEI, a lanciare una iniziativa volta a sostenere con un apposito fondo chi decide di mettersi in proprio, per favorire nuova imprenditorialità, perché il lavoro non lo porta la cicogna, ma la libera intraprendenza degli uomini.
Se guardiamo al passato possiamo scorgere i frutti e i limiti dello sviluppo economico.
L’affrancamento dalla povertà, la scolarizzazione (nel 1968 solo un quarto degli italiani aveva un diploma, oggi più del triplo, quasi l’80 per cento), lo sviluppo industriale, la crescita della solidarietà e del volontariato (che ha raggiunto livelli mai visti in passato, basti pensare alla risposta dei volontari in occasione del recente tragico terremoto in Abruzzo), la tenuta della famiglia (una sorta di welfare all’italiana), l’aumento dei posti di lavoro e la progressiva riduzione della disoccupazione. Ma al tempo stesso non possiamo ignorare le ingiustizie su scala planetaria, la malnutrizione, la fame, il terrorismo, le guerre, l’iniqua distribuzione delle risorse del pianeta non solo tra Nord opulento e Sud povero, ma tra le oligarchie ricche del Sud del mondo e i loro popoli tenuti lontani dal benessere, dalla democrazia e dallo sviluppo.
Questa crisi ci obbliga a ripensare lo sviluppo, senza cedere alle sirene del collettivismo e dell’assistenzialismo.
Questa crisi ci obbliga a esercitare la solidarietà, con tutte le forme di sostegno a chi è in difficoltà ma anche a ripensare la sussidiarietà. Questa crisi ci chiede di ripensare al bene comune e al valore della persona, al primato del lavoro sul capitale, e della persona sul lavoro (anche quello manageriale).
Il nostro sistema di Welfare state fa acqua da tutte le parti. Occorrerà fare un bilancio rigoroso degli sprechi colpevoli della spesa pubblica, nella sanità, nella scuola, nella burocrazia.
L’assistenzialismo di Stato va progressivamente sostituito da una welfaresociety, che dia spazio all’esercizio del principio di sussidiarietà, come ha accuratamente illustrato nei suoi testi Don Mario Toso.
La crisi è un’occasione per riflettere sul bene comune dell’Italia, sui nostri stili di vita, sui miti e gli idoli dei nostri giovani, sulla necessità di riscoprire la sobrietà. Una sobrietà che incida sui nostri modi di consumo e sulla gerarchia dei valori. Per uscire dalla crisi migliori, si rivela di grande utilità per tutti la bussola che ci viene offerta dai quattro capisaldi della Dottrina sociale: il principio-persona, il bene comune, la sussidiarietà e la solidarietà.
Senza dimenticare mai, come ha detto ancora il Papa ai parroci romani che “la giustizia non si crea con modelli economici buoni, che sono necessari. La giustizia si realizza solo se ci sono i giusti. E i giusti non ci sono se non c’è il lavoro umile e quotidiano di convertire i cuori e di creare giustizia nei cuori. E aprire i cuori alla giustizia e alla carità è aprire alla fede e guidare a Dio”.