Da 40 anni riuniti nel nome di Paolo

ROMA, venerdì, 24 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’intervista al prof. Jacques Schlosser, presidente di turno del Colloquium Paulinum Oecumenicum e docente emerito di Teologia cattolica all’Università di Strasburgo, apparso sul quinto numero di “Paulus” (novembre 2008) dedicato a “Paolo il mistico”.

 

 

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Pochi sanno che da quarant’anni, a cadenza biennale, l’Abbazia di San Paolo fuori le Mura ospita un incontro tra i maggiori studiosi mondiali dell’Apostolo. Il Colloquium Paulinum Oecumenicum nasceva nel 1968, per volontà dei benedettini, come risposta allo spirito del concilio Vaticano II. L’intento? Offrire un’accoglienza ecumenica a paolinisti di tutte le confessioni cristiane che, in massima libertà e senza alcuna intrusione esterna – le giornate di studio si svolgono infatti a porte chiuse –, favoriti da un’atmosfera raccolta, possano dedicarsi completamente allo studio e al dialogo. Anche quest’anno i convenuti giungevano da ogni parte del mondo: Atene (Christos Karakolis), Northampton (Karl Donfried), Ecublens (Daniel Marguerat), Uppsala (Lars Hartman), Sibiu (Vasile Mihoc), San Pietroburgo (Dimitri Jannuary Ivliev), Gerusalemme (Gregory Tatum), Lione (Michel Quesnel)… Alla luce di questi quarant’anni di esperienza, alcuni partecipanti hanno avanzato l’ipotesi di fondare un centro di studi paolini presso l’Abbazia con finalità pastorali, oltre che accademiche. Ne parliamo con il presidente, il professor Jacques Schlosser di Strasburgo.

Professore, il tema scelto per questo 40° anniversario del Colloquium è stato “L’unità della Chiesa in Paolo”: un tema trasversale, quindi, e non basato su una singola Lettera paolina come avevate sempre fatto finora. Un’eccezione per l’Anno Paolino o una felice coincidenza?

«È stata una coincidenza organizzata, se vuole. Secondo il nostro schema abituale avremmo dovuto lavorare su due Lettere, cioè la Seconda a Timoteo e la breve Lettera a Tito. Ma l’Abate di San Paolo ci ha chiesto per quest’anno di scegliere un tema più impegnativo e più teologico, per interessare un uditorio più ampio. Abbiamo allora affrontato le differenti metafore paoline, come l’immagine del gregge, del tempio e del corpo di Cristo».

In che modo gli studiosi possono aiutarci a scoprire l’unità nel pensiero di Paolo?

«Intanto, quale unità dobbiamo intendere? L’unità della Chiesa universale? In Paolo è troppo presto per parlarne in modo tanto aperto, come se allora ci fosse già stata una Chiesa organizzata su tutta la terra. Per questo anche i nostri interventi sono stati di più modesta portata. Ma, comunque vada intesa, l’unità della Chiesa è una caratteristica essenziale per la sua vita. L’unità non è una sorta di movimento che va di moda, ma un’esigenza profonda dell’essere cristiano. Fondamentalmente, l’unità non è qualche cosa che bisogna costruire, ma qualcosa che si riceve. E allora essa può essere rovinata, come capita nelle relazioni umane: l’unità di una famiglia si può rompere, così come può accadere tra due amici. C’è dunque un altro aspetto su cui bisogna impegnarsi, perché quest’unità si possa ristabilire, e cioè la riconciliazione, il perdono. Il nostro lavoro di studiosi arriva solo a questo punto né va inteso come un punto di partenza, quasi una sorta di morale che predica: “Bisogna essere uniti, perché è bene esserlo”. No, bisogna essere uniti nella vita perché Dio ci ha affidato questa unità, perché ce l’ha donata, perché essa è inseparabile dalla fede in Cristo. Le disgrazie della storia hanno fatto sì che non ci sia accordo tra le diverse Confessioni, eppure l’unità o una certa forma di unità sussistono sempre; e negli ultimi tempi essa ha fatto discreti progressi. Qual è allora il nostro compito? Noi specialisti di san Paolo dobbiamo leggere i suoi testi e vogliamo comprenderli prima di tutto a nostro vantaggio, ma anche per arricchire altri».

Secondo un luogo comune molto diffuso, san Paolo non sarebbe l’uomo dell’unità, ma l’uomo della divisione, colui che avrebbe travisato in qualcos’altro il messaggio originario di Cristo. Eppure è nel suo nome che vi siete riuniti qui dai quattro angoli del pianeta. Chi è e chi deve essere Paolo per la Chiesa universale?

«È storicamente falso, oltre che scorretto, affermare che san Paolo è il fondatore del cristianesimo. Come non ha senso, d’altronde, dire che il cristianesimo è stato fondato un determinato giorno. Il cristianesimo è la conseguenza di quelle particolarissime novità che il giudeo Gesù di Nazareth ha immesso nel giudaismo. Il cristianesimo deriva direttamente dalla risurrezione di Gesù. Paolo è stato chiamato dal Signore e in virtù di questo c’è stata per lui, soltanto in una certa maniera, una rottura. Egli è un giudeo divenuto discepolo di Gesù. Paolo pregava tutti i giorni come un giudeo, continuava a frequentare il suo popolo, eppure allo stesso tempo non era più giudeo su tutta la linea. Qualcosa di nuovo era entrato nella sua esistenza e da questo punto di vista egli è effettivamente un agente di rottura, ma oggi non ha alcun senso parlare di Paolo come avversario dei giudei. Sono affermazioni da sfumare molto, proprio come una certa mentalità che vede in Paolo un antifemminista. In effetti c’è, nella tradizione delle sue Lettere – sempre che sia di suo pugno – la richiesta che le donne nelle assemblee tacciano. Sì, non bisogna negare che in alcuni tratti Paolo riflette la mentalità del tempo, eppure negli stessi anni – fatte poche eccezioni – nel mondo ellenistico le donne non erano affatto emancipate. Paolo non poteva rivoluzionare d’un colpo tutta la cultura del tempo. Rendiamoci conto che i gruppi di cristiani erano una minoranza – pochi, piccoli e talvolta perseguitati –: non avrebbero mai potuto abolire la schiavitù, per quanto se ne dica. Eppure Paolo ha seminato abbastanza dinamismo, così che nel suo messaggio ci sono già i germogli non della divisione, ma del superamento delle divisioni. Quando egli dice che non c’è più né greco né giudeo, né schiavo né libero, né uomo o donna, ma che tutti sono uno in Cristo, esprime in modo profetico quello che noi non abbiamo ancora saputo realizzare neppure nella Chiesa cattolica».

Come si svolgevano le vostre giornate di studio?

«Ogni mattina ci riunivamo per un momento di preghiera, presieduta a turno da colleghi delle diverse confessioni e lingue, che durava circa un quarto d’ora. Dopo di che cominciavano i lavori. Prima una conferenza di 30-40 minuti cui seguiva, a seconda dei casi, un lungo dibattito. Poi una breve pausa per ristorarsi un po’, anche a causa del caldo che abbiamo trovato in Italia. I lavori riprendevano poi con le discussioni in gruppi più piccoli, formati secondo le tre lingue ufficiali del Congresso: francese, inglese e tedesco. Poi si tornava in aula per sviluppare il discorso più in generale: ogni gruppo riferiva i propri interrogativi emersi dal confronto, a cui il relatore di turno rispondeva con puntualità. Così si concludeva la prima metà della giornata. I lavori riprendevano al pomeriggio dopo un momento di riposo, come in buon uso tra i romani. Verso le 16 c’era una seconda conferenza, seguita da riunioni e dibattiti. Si finiva tra le 18 e le 19, dopo di che si andava a cenare nel refettorio dei benedettini, dove ci intrattenevamo in un ambiente di serenità e preghiera. Ecco il quadro generale».

Un programma impegnativo. Ci sono stati anche dei momenti informali? Al Colloquium si respirava un’atmosfera diversa da quella di una semplice conferenza…

«Certamente le conferenze erano piuttosto impegnative e richiedevano una grande concentrazione, ma senza eccessiva fatica e tensione. Durante le pause si continuava a discutere tra noi sul tema della conferenza in un’atmosfera del tutto amichevole. Durante i pasti, i benedettini avevano adottato un regime speciale, tralasciando le lunghe letture abituali, e permettendoci di rompere il silenzio per parlare con molta distensione. Nel programma avevamo previsto un’uscita pomeridiana per visitare la chiesa di Santa Maria Antiqua. Non abbiamo potuto invece effettuare la nostra visita a Santa Maria Nuova né a San Teodoro. Così siamo andati verso Roma sud per un’escursione in c
ampagna, all’aria aperta, e poi siamo stati a mangiare fuori. Ottimo cibo, un’escursione eccellente… ma siamo rientrati molto tardi e la mattina dopo eravamo tutti piuttosto stanchi. È stato tutto così piacevole! Potevamo parlare finalmente senza affrontare grandi discorsi, in un’atmosfera distesa e allegra. Dopo tutto, siamo uomini e donne in carne e ossa».

Come si è toccata quotidianamente la dimensione ecumenica, ad esempio nella preghiera?

«Domanda interessante. Tutti i giorni, oltre alla nostra preghiera del mattino nella sala dove si svolgevano i nostri lavori, c’era la possibilità di partecipare alla preghiera dei monaci. E i nostri colleghi protestanti – sia luterani, sia riformati, sia metodisti –, nonché i nostri colleghi ortodossi, hanno largamente partecipato ad alcuni momenti di preghiera con loro. Talvolta erano un po’ spaesati, perché non sono abituati allo stesso tipo di preghiera o, ad esempio, all’uso del latino. E venerdì sera abbiamo celebrato tutti insieme il Vespro ecumenico, all’interno del quale, secondo la tradizione del Colloquium, si è tenuta una conferenza per un pubblico più vasto… erano presenti almeno duecento persone. L’idea di una conferenza pubblica che desse conto dei risultati raggiunti sul tema della settimana risale ai primissimi tempi, credo addirittura al secondo Colloquium. L’ultima giornata si è conclusa con un dibattito scientifico molto impegnativo, dopo di che abbiamo pregato di nuovo tutti assieme, a mezzogiorno. Negli altri appuntamenti con il Colloquium, quando studiavamo una singola Lettera, la si leggeva per intero in greco, dopo di che i membri dei diversi gruppi la leggevano nelle altre lingue. In occasione di questo 40° anniversario, invece, abbiamo letto tre testi di Paolo in greco. Il lettore ha poi pronunciato una preghiera nella propria lingua che tutti abbiamo poi ripetuto. Quindi tre letture, tre preghiere e tre salmi, a cui è seguita una breve omelia conclusiva. E infine la benedizione e il congedo dell’Abate, che ci ha dato appuntamento fra due anni».

Com’è mutato il Colloquium, nei suoi quarant’anni di storia?

«Personalmente ho partecipato almeno a otto incontri e non ricordo variazioni sostanziali. Certo, sono cambiate le persone – molte sono morte –, ma l’ambiente è sempre stato accogliente. Ci tengo a sottolineare il vantaggio pressoché unico di poter svolgere questi incontri in un monastero: non sarebbe stato lo stesso in un hotel, anche se ci si conosce bene e si è amici, perché mancherebbe quest’ambiente raccolto, di preghiera e di riflessione. Siamo davvero molto grati ai monaci che ci accolgono come veri amici e s’interessano ai nostri lavori tanto complessi, che forse allontanano altri. C’è una specie di… come dire? in Francia diremmo che c’è una complicité: c’è come una reciproca empatia. E questo è molto bello».

Paolo Pegoraro

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ZENIT Staff

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