Una vita per l’annuncio del Vangelo

ROMA, giovedì, 9 ottobre 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’articolo a cura di monsignor Rino Fisichella, Presidente della Pontificia Accademia per la Vita, apparso sul numero di ottobre della rivista “Paulus”.

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Cosa può dire l’apostolo Paolo può dire agli uomini e alle donne di oggi? Gli elementi sono certamente tanti, ma credo che il tutto possa essere sintetizzato in due termini: conversione e apostolato. Prima di tutto Paolo ci dice che incontrare Gesù Cristo è possibile, come è possibile poter parlare con Lui. Come conseguenza di questo, siamo chiamati a cambiare vita. In At 9,17-18 apprendiamo che all’Apostolo, che si trovava davanti ad Anania, uscirono dagli occhi come delle squame. Non sappiamo in cosa consistessero, sappiamo però che, simbolicamente, qualcosa della sua vita era realmente cambiata. La stessa cosa la troviamo descritta in 2Cor 5,16-17: «anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così. Quindi se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate, ecco ne sono nate di nuove». L’invito di Paolo a ciascun cristiano è di conoscere Cristo secondo lo spirito: anche per noi oggi vi è la possibilità di un cambiamento nella possibilità di incontrare Gesù di Nazareth il Signore.

Siamo chiamati, dunque, come primo passo a cambiare vita. Ora passiamo al secondo termine, alla seconda dimensione a cui abbiamo fatto riferimento, quella che rende Paolo tanto conosciuto fino ai nostri giorni, cioè l’apostolato. “Apostolo” è una parola greca che significa: “colui che è inviato”. Paolo è un missionario e questo non per un caso. Chi incontra Cristo è portato a diventare un evangelizzatore. Secondo la mia esperienza, sono convinto che per conoscere l’Apostolo dobbiamo leggere innanzitutto la lettera ai Galati. Qui Paolo parla della sua vita, dice in che cosa è consistita questa rivelazione, di cui molto sinteticamente ci ha dato una sua versione (cfr. Gal 1,13-18). In questi versetti scopriamo subito chi era l’Apostolo e vorremmo avere tutti i dettagli su ciò che è accaduto sulla via di Damasco. Nella nostra immaginazione, anche a motivo di tante rappresentazioni pittoriche, ci raffiguriamo Paolo che cade da cavallo… ma né nelle lettere né negli Atti degli Apostoli si menzionano cavalli nei racconti della conversione.

Forse Paolo adoperò un animale da trasporto, ma è molto più probabile che andasse anche a piedi: a quei tempi era comune percorrere circa trenta km al giorno. Paolo, dunque, non si preoccupa di dirci cos’è avvenuto, ma com’è avvenuto; a lui interessa dirci l’essenziale: Dio «si compiacque di rivelare a me suo Figlio». Come questo sia avvenuto appartiene alla dimensione del mistero che ci rimanda al giorno di Pasqua. Quando gli evangelisti lo raccontano, usano lo stesso linguaggio per dire che Gesù “si è fatto vedere”. Non siamo stati noi a vedere Lui, Lui si è fatto vedere a noi. Secondo il linguaggio biblico, questa condizione è diversa: non sono le nostre categorie, ma è Lui che si fa vedere e chiama a entrare nella sua dimensione. Chi è all’interno della visione e della rivelazione non riesce a esprimere nulla. Paolo sperimenta tutta l’incapacità del linguaggio di poter esprimere l’esperienza fatta, e questo può valere anche per ognuno di noi non alle prese con una visione, ma chiamati a cambiare la nostra vita dall’annuncio del vangelo.

Nella stessa lettera ai Galati ci viene descritto anche il carattere di Paolo, un uomo che non conosceva mezze misure e andava là dove era chiamato senza consultare nessuno e senza andare a Gerusalemme da chi aveva conosciuto direttamente il Signore, ma subito andò in Arabia per annunciare il vangelo e poi di nuovo a Damasco e poi così via per tutta la vita. Paolo è il missionario, l’evangelizzatore per eccellenza. Da un calcolo approssimativo delle date possiamo vedere che Paolo incontra Gesù sulla via di Damasco intorno all’anno 33, tre anni dopo la morte di Gesù e, dal 33 fino al 65-67, Paolo è sempre e soltanto in viaggio per annunciare il vangelo. Pensiamo solo ai viaggi di Paolo: 16.500 km! Duemila per il primo viaggio, cinquemila per il secondo, seimila per il terzo, tremilacinquecento da Gerusalemme a Roma.

In 2Cor 11,23-28 Paolo racconta della sua ansia missionaria ed elenca con passione cosa abbia significato annunciare il vangelo nelle molte fatiche, prigionie, percosse, naufragi… ciò che ha vissuto in questi trent’anni di evangelizzazione è tutto vero. Paolo ha dato gli anni più belli della sua vita per annunciare il vangelo di Gesù Cristo fino ad arrivare a Roma, dove l’accoglienza non fu tra le migliori.

Paolo aveva scritto la lettera ai Romani per preparare la sua visita. Ma i Romani erano autonomi: la loro era una bella comunità e non era stata fondata da Paolo, bensì da Pietro. Paolo veniva visto quasi come un intruso. Perché? Perché aveva detto che la legge era una preparazione, ma quello che Gesù aveva portato era l’amore. Avrebbe dovuto rallegrare il cuore di tutti, e invece non era così, perché nei primi tempi sottostare alla legge era ancora una tentazione molto forte.

Paolo, però, con forza, andando fino a Gerusalemme e discutendo con Pietro e con Giacomo, ha voluto far capire che Gesù era arrivato ed era veramente il Messia; per questo la legge di Mosè era completamente superata. Per questo l’Apostolo è stato tanto osteggiato. Alcuni pensavano che bisognava andare adagio senza urtare la mentalità di quelli che si erano convertiti dal giudaismo. Anche noi tante volte facciamo attenzione a come parliamo, nel dire tutta la verità perché qualcuno si può scandalizzare, perché si può essere intolleranti e allora è meglio smussare gli angoli, e magari rinunciare alla nostra identità. Se Paolo sentisse tanti ragionamenti simili che oggi vengono fatti…! La verità è Cristo, dice l’Apostolo, in lui siamo stati battezzati, in lui tutti siamo peccatori come nel primo Adamo, ma nel secondo Adamo, il Cristo, tutti siamo stati salvati, perché Dio ha rinchiuso tutti nel peccato per portare tutti alla salvezza nella morte e nella risurrezione di suo Figlio.

Per concludere possiamo dire che questo richiamo, questo appassionato annunzio dell’amore ha portato a vedere Paolo in alcuni ambienti anche con un certo sospetto. Fino al secondo secolo le lettere di Paolo venivano lette, ma non in tutte le comunità. Si deve arrivare a Ireneo e ad altri discepoli, che incominciano a mettere insieme gli scritti di Paolo e a scoprire la profonda ricchezza presente nel suo insegnamento a cui tutti noi possiamo oggi attingere.

Penso infine agli ultimi momenti della vita di Paolo, a quel 30 giugno di ormai duemila anni fa in cui i protomartiri di Roma morirono a causa di Cristo e della fede. E tra loro c’erano anche Pietro e Paolo. Paolo nell’avvicinarsi a questo momento supremo, scrive una delle pagine più dense e toccanti dei suoi scritti: «Quanto a me, il mio sangue sta per essere sparso in libagione ed è giunto il momento di sciogliere le vele. Ho combattuto la buona battaglia, ho terminato la corsa, ho conservato la fede» (2Tm 4,6-7). Da questo tutti possiamo comprendere chi è Paolo per noi, cosa ci dice ancora oggi; da questi versetti comprendiamo chi è l’apostolo di oggi: è colui che per tutta la vita annuncia il vangelo e conserva la fede fino alla fine.

Rino Fisichella

Presidente della Pontificia Accademia per la Vita

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ZENIT Staff

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