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«Guai a me se non evangelizzassi» (1Cor 9,16): questo è l’anelito supremo di Paolo. Per il vangelo egli mette in gioco la sua vita. Convertito, dona alla sua vita un solo scopo: amare Gesù e farlo amare. Libero da tutti, si fa schiavo di tutti, perché è stato «conquistato da Cristo» (Fil 3,12). Eccolo allora spogliarsi di tutto per rivestirsi di Cristo. Sa adattarsi ai gruppi, ai popoli, alle loro tradizioni. A cominciare dal nome stesso! Se il suo nome ebreo era Sha’ùl/Saul, datogli dal padre appartenente alla tribù di Beniamino, cui apparteneva appunto il re Saul, il suo nome acquisito, con il quale volutamente sempre si presenta e si firma, sarà Pàulos, versione grecizzata del latino Paulus. In occasione dell’incontro missionario con il governatore romano di Cipro, Sergio Paolo, passa dal nome Sàulos a quello di Paulos (cfr. At 13,9). Dobbiamo leggere, in questo cambiamento, non un semplice adattamento convenzionale, ma una scelta convinta, un ampliamento di prospettiva in ordine al vangelo, da predicarsi in tutto il mondo. È la manifestazione esteriore d’una doppia appartenenza culturale, quasi un ponte gettato tra aree linguistiche.
Quanto all’adattamento linguistico, di cui abbiamo già detto [cfr. Paulus 3/pp. 23], Paolo sapeva maneggiare arti oratorie come la discussione, la diatriba, la retorica. Ripeteva a memoria frammenti di poesie, proverbi e detti popolari. Egli cita, ad esempio, il comico greco Menandro (cfr. 1Cor 15,33), il poeta cretese Epimenide (cfr. Tit 1,12 e At 17,18) e il conterraneo di Cilicia, Arato di Soli (cfr. At 17,28). Familiarizzatosi con la lingua greca della Settanta – la traduzione delle Scritture ebraiche –, ma anche con il linguaggio dei pagani dell’Asia Minore, Paolo sa attingere all’una e all’altra fonte la terminologia per la teologia cristiana, in modo da essere meglio capito. Termini greci come: amartolòs e amartìa (“peccatore”, “peccato”), sperma (“discendenza”), krites (“giudice”), kleronomìa (“eredità”), paroikìa (“dimora”, “passaggio”), ekklesìa (“assemblea”, “convocazione”), synérgheia (“sinergia”, “collaborazione”), koinonìa (“partecipazione”), e altri termini del linguaggio sociale, religioso, giudiziario e commerciale, sono presenti in vari discorsi di Paolo e più ancora nelle sue lettere (cfr. At 13,17-41).
In particolare egli sente il fascino dell’ideale della libertà, ben presente nel mondo greco, e ciò lo spinge, unico autore degli scritti neotestamentari, ad elaborare una teologia cristiana della libertà e della liberazione. La eleutherìa (“libertà”) era centrale nella tradizione politica delle città greche, tendenti alla democrazia, alla libertà politica, di pensiero e di espressione. In Paolo emerge non solo la libertà del parlare, dello scrivere e del pensare (la parresìa: cfr. 1Ts 2,2; 2Cor 3,12; Fil 1,20), ma soprattutto la libertà esistenziale, certo illuminata e mossa dallo Spirito. Egli si sente «libero da tutti, fatto servo di tutti» (1Cor 9,19). Questo perché «Cristo ci ha liberati perché potessimo vivere nella libertà» (Gal 5,1). Una libertà però che «non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma [che] mediante la carità sia a servizio gli uni degli altri» (5,14). In questo quadro di morale personalistica è da inserirsi anche il frequente richiamo alla “coscienza” (synèidesis: cfr. At 23,1; Rm 2,15; 1Tm 1,5) come riferimento all’agire morale, molto comune nel mondo ellenistico (cfr. 1Cor 8,7; 10,25).
Inoltre Paolo usa categorie mentali appartenenti alla visione del mondo greca-latina. Così impiega le distinzioni tra cittadino e straniero, magistrato e privato, libero e schiavo, città di nascita e città di adozione: tutte parole dell’amministrazione civile greco-romana. Persino nella geografia fa propria la concezione romana del mondo: ha una visione geografica dell’Asia Minore e dei Balcani, basata sull’organizzazione amministrativa dell’Impero romano. Prende infatti in considerazione, non le regioni o gli stati, e tanto meno le città, ma soltanto le divisioni in Province (Siria, Cilicia, Galazia, Asia, Macedonia, Acaia). I suoi stessi itinerari di viaggio sono programmati e compiuti lungo le strade romane e le capitali amministrative dell’Impero. Qui egli studia le caratteristiche che rendono rinomato quel luogo, oltre alle scene di vita o ai monumenti più tipici.
Volentieri ne fa uso per la sua catechesi, ritenendo che rimarrà ancor più impressa nel cuore dei suoi ascoltatori. La città di Corinto, per esempio, era famosa a quel tempo per i suoi giochi che attiravano non solo atleti, ma spettatori da ogni. L’immagine delle gare e dell’atleta vittorioso è ben sfruttata da Paolo nel suo parlare ai Corinti (cfr. 1Cor 9,24-27). Sempre a Corinto, era famoso il santuario della salute in onore del dio della medicina, Asclepio. Non solo Paolo rinfrescò laggiù le sue nozioni mediche, già apprese nella sua formazione a Gerusalemme, ma le sviluppò lungo la sua predicazione sul tema del corpo umano, simbolo di ogni collaborazione organica e vitale (cfr. 1Cor 9,12-27).
La metafora del corpo umano era già usata nel mondo ellenistico in versione politica e in prospettiva cosmica. Da un lato essa mostrava bene l’unità dello Stato o della città (pòlis) integrante i singoli cittadini e le parti sociali; dall’altro sottolineava l’unità del genere umano e persino dell’universo (kòsmos). Paolo sfrutta questa ottima immagine per presentare il corpo di Cristo, che è la Chiesa, ove tutti formano un unico corpo e ove ognuno riceve e svolge il suo proprio ministero o carisma. Gli ascoltatori, oltre che al proprio corpo, potevano richiamare alla memoria gli ex-voto plasmati sulle forme delle varie membra appesi alle pareti del santuario come testimonianza della grazia ricevuta.
Trovandosi ad Atene, egli si lasciò certamente prendere dall’interesse artistico e culturale, se lui stesso, parlando ai cittadini, si descrive come uno che «passa ed osserva i monumenti del vostro culto» (At 17,23) e fra questi dice di «aver trovato anche un’ara con l’iscrizione: Al Dio ignoto» (ivi). È vero che era stato «preso dal fremito nel vedere la città piena di idoli», ma, nel suo desiderio di dialogo e di avvicinamento, non sottolinea questa divergenza (pluralità di dèi), ma parte da ciò che unisce: la pietà, il culto, il timore degli dèi. Paolo si lancia per annunciare la buona notizia.
Nei giorni precedenti aveva preso a discutere non solo nella sinagoga con i giudei e i pagani credenti in Dio, ma anche nella piazza principale, con filosofi epicurei e stoici (cfr. 17,17-18). Il che induce a pensare che avesse le cognizioni adatte per discutere con loro, benché qualcuno l’aveva tacciato di essere un ciarlatano! Il giorno stabilito volle dare prova della sua sophía o sapienza al modo dei predicatori pagani, anzi dei retori e più ancora dei filosofi.
Tutti ci attenderemmo un successo da quel gioiello di discorso che fa leva non solo sulle argomentazioni razionali, ma tocca le corde dell’inquietudine umana, desiderosa di un dio che si faccia vicino. Eppure conosciamo l’esito: chi lo derise come stravagante per la sua predicazione della risurrezione dai morti e chi più educatamente espresse il proprio disappunto. In una parola, lo scacco di Paolo fu totale. Un vero fallimento su scala professionale, perché egli non aveva saputo convincere un pubblico esigente e difficile.
Da allora egli rifiuterà di appoggiarsi agli argomenti della sophía/sapienza greca. Andando, più tardi, a evangelizzare i Corinti, dichiarerà loro che «la mia parola e il mio messaggio non si basano su discorsi persuasivi di sapienza» (1Cor 2,4). Una sconfitta della cultura, dunque? Un rifiuto della discussione e del dialogo? No, soltanto
la maturazione della convinzione che i soli discorsi intellettuali, per quanto persuasivi, condurrebbero al massimo a un’adesione umana. Mentre invece solo la rivalazione divina conduce all’adesione di fede, ed essa è basata «sulla manifestazione dello Spirito e della sua potenza, perché la vostra fede non sia fondata sulla sapienza umana, ma sulla potenza di Dio» (1Cor 2,4-5). Non rifiuto, dunque, ma uso appropriato della cultura al servizio del vangelo e del primato dello Spirito.
A Efeso, altra città cosmopolita dell’Asia Minore sulle rive dell’Egeo, Paolo affina lo strumento epistolario giungendo a una dimensione letteraria. Le sue lettere, anche se testimonianze di corrispondenze personali (cfr. il “biglietto” a Filemone) o scritti di circostanza (cfr. le due lettere ai Tessalonicesi e ai Corinti), assurgono sempre a veri trattati dottrinali, sintesi del suo pensiero e della sua teologia. Ma anche nel suo intento centrale di comunicare il vangelo in tale forma, Paolo non tralascia di compiere un grande sforzo di stile e di composizione, nella sollecitudine di far arrivare l’annuncio a lettori di culture diverse.
Analizzando le lettere e confrontandole con l’epistolografia greco-romana del tempo, gli studiosi notano, dal punto di vista formale, una struttura comune e una più complessa derivata dalla retorica classica. Esse infatti sono costituite da indirizzo, introduzione, corpo epistolare, per terminare con saluti e auguri conclusivi. Inoltre vengono impiegati stereotipi quali ringraziamenti, richieste, raccomandazioni, notificazioni, ricordi, progetti, ammonizioni. Paolo adotta uno stile letterario, ma allo stesso tempo lo arricchisce con formule cristologiche.
Quanto alle regole della retorica classica, Paolo si mostra abile nel proporre argomentazioni, strutturate secondo tesi, confutazioni, perorazioni. Sa fare largo uso di vari tipi dimostrativi: si serve della mozione degli affetti (cfr. Gal 4,13-16), ricorre alle narrazioni autobiografiche al fine di ottenere o confermarsi la fiducia delle sue comunità (cfr. 1Ts 2,1-10) e dimostra di saper argomentare (cfr. 1Cor 15). Ma egli sfrutta questo quadro culturale tutto e solo in funzione del servizio del vangelo. A proprio appoggio non porta la sua parola, ma quella di Dio, manifestata nelle Scritture (cfr. Rm 1,1-2), attualizzata e compiuta da Gesù Cristo, il Figlio di Dio, e a lui stesso comunicata per rivelazione (cfr. Gal 1,16; 1Cor 12,1.7). Riassumendo, egli sa disporre la forma a servizio del contenuto che è «la sublime conoscenza di Cristo» (cfr. Fil 3,8), «nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza» (Col 2,3).
Nei suoi anni di apostolato, Paolo, solerte lavoratore (cfr. At 18,3; 1Cor 4,12), ma anche perenne studioso che non sa staccarsi dai suoi libri e dalle sue pergamene (cfr. 2Tm 4,13), ha modo di approfondire la sua cultura greca. Adotta il concetto filosofico di «pienezza» (plèroma) per descrivere la Divinità (cfr. Col 1,19; 2,9). Il crescente utilizzo del vocabolario mistico e della stessa parola mystérion (“mistero”) rivela che Paolo non è insensibile all’atmosfera religiosa dell’ambiente circostante, specialmente a Efeso, all’ombra del tempio della dea Artemide. Egli infatti parla di palingenesìa (“rigenerazione”, “rinascita”: Tt 3,5) e anche di «passare la soglia» (in greco embatéuein: Col 2,18) per indicare l’accesso al luogo d’iniziazione. A Efeso ebbe probabilmente contatti anche con l’essenismo, da cui ha potuto assumere immagini di contrapposizione, quali luce-tenebre, Cristo-Beliar (Satana), Dio-idoli (cfr. 2Cor 6,14-16).
Tutto questo adattamento è fatto in vista della proclamazione del vangelo. Ciò non significa che Paolo baratti o tanto meno rinunci a presentare la dottrina rivelata nella sua nella sua novità dirompente ed esigente. Il vangelo è irrinunciabile. L’apostolo intende consegnare la tradizione come egli l’ha ricevuta, particolarmente nei suoi nuclei essenziali e centrali, quali la risurrezione del Signore e la sua Cena (cfr. 1Cor 15,1-3 e 11,23-25). Di fronte alle fortissime resistenze e difficoltà incontrate in campo giudaico e pagano per l’annuncio della risurrezione di Cristo, Paolo non recede e non addomestica il suo messaggio. E similmente per il mistero dell’eucaristia, «corpo e sangue del Signore» (1Cor 11,27). Il messaggio di cui è fedelissimo portatore e testimone non è a disposizione del gusto degli uditori né adattabile alle loro aspettative, ma è divina rivelazione da comunicare integralmente.
Per questo annuncia cose assolutamente inaudite, contrarie al senso comune e inaccettabili per alcune concezioni religiose, compresa quella in cui lui stesso era stato educato. Ai giudei presenta lo scandalo di un Messia crocifisso. Ai greci la stoltezza di un Dio debole. Ai cristiani di Corinto, città di pessima reputazione in fatto di costumi, parla nientemeno che di verginità come possibile scelta di vita (1Cor 7). A tutti non esita a presentare la morte come un guadagno (cfr. Fil 1,21.23). Ai pagani annuncia non che un uomo è diventato dio, ma che Dio è diventato uomo (cfr. Gal 4,4). A tutti proclama che Dio è unico, ma anche che Egli ha inviato il suo Figlio e che con lui ci da dato il suo Spirito (cfr. Rm 5,5).
Attento a tutte le culture incontrate, Paolo non si lega ad alcuna di esse, per vivere la libertà del vangelo. Anzi, di fronte alle pretese di sapienza dei greci e di giustizia dei giudei, di fronte alla repressione della voce della coscienza nei pagani e alle loro deviazioni morali (cfr. 1Cor 1,18-25; Rm 1,23-30), egli non teme di smascherare i fallimenti di una cultura avulsa dal Dio di Gesù. Sfidato da rigurgiti provenienti da culture paganeggianti anteriori alla conversione (cfr. 1Cor 1-2) e persino da inutili applicazioni di pesi giudaici alla libertà di Cristo, Paolo si scaglia contro coloro che «snaturano il vangelo» (Gal 1,7) o rinunciano allo scandalo della croce.