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In questo mio intervento utilizzerò due recenti indicazioni di Benedetto XVI per sviluppare qualche approfondimento, proponendomi non tanto di esaminare i fondamenti ultimi del nesso tra Dottrina sociale della Chiesa, cultura e impegno dei cattolici, quanto piuttosto di considerare la contingenza italiana e prospettare qualche idea sul da farsi. I due testi in questione riguardano l’appello del Papa a Cagliari, durante la recente visita pastorale in Sardegna e l’omelia da lui tenuta nella Chiesa di Saint Mary a Sidney il 18 agosto scorso in occasione della Giornata mondiale della Gioventù.

A Cagliari, Benedetto XVI ha auspicato la nascita di una nuova generazione di cristiani impegnati nella società e nella politica. Il suo intervento ha suscitato un discreto interesse nei media e ne è seguito un certo dibattito, a dire il vero ben presto bruciato da altri incombenti avvenimenti politici, come è costume della nostra stampa. E’ bene invece tornare su quel richiamo e porci qualche domanda. Il papa intendeva rivolgersi ai laici cristiani impegnati nella società e nella politica, oppure stava parlando alle comunità cristiane, che dovrebbero esprimere questa nuova generazione di laici impegnati? La maggior parte dei giornalisti ha adottato la prima versione e, conseguentemente, il dibattito si è esaurito nell’intervistare i laici cristiani attualmente sulla scena politica e a chiedere loro se si sentissero implicati dalle osservazioni del papa. Qualcuno ha anche cercato di valutare se le parole del papa fossero a favore o contrarie ai laici cristiani presenti nella compagine governativa. Si trattava, evidentemente, di una strada interpretativa sbagliata. Ha molto più senso, invece, pensare che il papa si rivolgesse alle comunità cristiane dell’Italia, che, quanto alla preoccupazione di formare nuove generazioni di cristiani impegnati nella società e nella politica, mostrano una certa “sonnolenza”. La variegata realtà ecclesiale italiana conosce luoghi e momenti di intenso lavoro per la evangelizzazione del sociale mediante la diffusione e l’incarnazione della dottrina sociale della Chiesa, ma anche altre diffuse realtà che fanno tornare alla mente appunto la sconsolante “sonnolenza” che il Curato di Campagna di Bernanos riscontrava guardando da lontano, nelle giornate di pioggia, la sua parrocchia [1]. A Cagliari il papa si era rivolto, quindi, a noi per ricordarci che il compito di formare nuove generazioni di cristiani impegnati nella società e nella politica non deriva alla Chiesa dal fatto che le generazioni attualmente impegnate non siano all’altezza. Non è escluso che in parte sia anche così, ma la Chiesa è chiamata sempre a fare questo lavoro formativo e, diciamo così, vocazionale. Ecco allora che l’esigenza espressa di avere una nuova generazione di cristiani impegnati suonava come un richiamo alle native responsabilità delle comunità cristiane, perché i laici impegnati non nascono dal nulla né cadono dal cielo. Non che questo, come dirò in seguito, liberi i laici stessi dalle loro responsabilità.

Si sente spesso dire che la secolarizzazione, intesa qui come corrosione della religione cristiana mediante svuotamento dei suoi presupposti umanistici, riduce le dimensioni e la consistenza del mondo cattolico e quindi riduce anche la sua capacità di formare laici impegnati, come – anche questo si dice – avveniva invece in passato. A questo tipo di osservazioni sottostà l’idea, magari inespressa, che la secolarizzazione sia un processo inarrestabile, una specie di “destino” dell’Occidente, quando non dell’intero pianeta. La secolarizzazione, come estromissione di Dio dal mondo fino al punto in cui si sarà cessato di parlarne [2], non è il destino della modernità. E’ proprio questa la principale sfida ingaggiata da Giovanni Paolo II e da Benedetto XVI e che dovrebbe vederci tutti protagonisti convinti e non stanche comparse di un copione recitato da altri. Su questo punto dobbiamo fare bene i conti con noi stessi: abbiamo capito a fondo e fatta veramente nostra la linea indicata da questi due pontefici? Ritornerò su questo problema tra breve.

Questo discorso sulla secolarizzazione – o la secolarizzazione come alibi - presenta anche un altro lato debole su cui è bene fare chiarezza. Nella nostra mente può darsi che ci sia ancora l’idea di una evangelizzazione che precede l’impegno sociale e l’impegno politico dei laici. Essi emergerebbero dopo e a seguito di una avvenuta evangelizzazione, come espressione e conseguenza di un “mondo cattolico” solidamente costituitosi e ben compaginato. Non è assolutamente così. L’impegno sociale e politico dei laici cattolici ha un valore evangelizzante, è evangelizzazione. La Dottrina sociale della Chiesa è strumento di evangelizzazione ed è educazione alla fede. Questo ultimo aspetto è di fondamentale importanza. Non è che si evangelizzi e poi, alle persone evangelizzate, si dica: guardate, abbiamo anche la Dottrina sociale della Chiesa, come se questa fosse un “premio” che si dà sopra il prezzo per fidelizzare l’acquirente conquistato. L’attività dei laici, svolta sulla loro personale responsabilità, ma mai condotta individualisticamente, è espressione della carità della Chiesa. Una imprecisa interpretazione della Deus caritas est ha sostenuto che la dimensione della carità appartenesse solo all’attività caritativa direttamente esercitata dalle organizzazioni ecclesiali [3]. Ne seguirebbe che la giustizia non avrebbe niente a che fare con la carità e, quindi, nemmeno con la Dottrina sociale della Chiesa. Non è così: la dimensione della carità comprende anche l’azione dei laici, singolarmente o associati tra loro. E quando questo impegno dei laici non c’è o è drammaticamente frastagliato, privo di unità di visione e di convinzioni - la Chiesa è una “comunità di convinzione” ha detto il papa a Parigi [4] - se ne paga un prezzo salato anche sul piano dell’unità ecclesiale. Quando il pluralismo dell’impegno sociale e politico dei cattolici supera la soglia della legittimità indicata nella “Nota Ratzinger” del 2002 [5], un’onda di ritorno colpisce le nostre comunità anche nell’unità della fede, nell’unità circa i fondamenti della cultura, nel senso di appartenenza ecclesiale, nella fedeltà ai pastori. Come possiamo indicare questa “soglia”? Faccio due proposte a carattere empirico. La prima: quando la concezione del pluralismo passa dal pluralismo nel fare il bene al pluralismo nel fare il male, quella soglia è stata superata e nessuno può misurare le lacerazioni della comunità cristiana che ne conseguono e i danni per la stessa evangelizzazione. La seconda proposta: quando si ritiene che Cristo sia solo utile ma non indispensabile perché l’uomo possa capire se stesso e trovare soluzioni veramente umane al proprio sviluppo, quella soglia è stata superata. C’è molto lavoro culturale da fare per far prendere coscienza del significato di queste due soglie, su cui verte ancora molta confusione, che rende certe forme di “pluralismo senza verità” assolutamente inaccettabili.

Arriviamo quindi al secondo intervento di Benedetto XVI che intendo utilizzare per questa mia breve comunicazione. Ai giovani, raccolti a Sidney per la Giornata mondiale della Gioventù, nell’omelia alla St. Mary Church, Benedetto XVI ha detto: «Vi sono molti, oggi, i quali pretendono che Dio debba essere lasciato “in panchina” e che la religione e la fede, per quanto accettabili sul piano individuale, debbano essere o escluse dalla vita pubblica o utilizzate solo per perseguire limitati scopi pragmatici. Questa visione secolarizzata tenta di spiegare la vita umana e di plasmare la società con pochi riferimenti o con nessun riferimento al Creatore. Si presenta come una forza neutrale, imparziale e rispett osa di ciascuno. In realtà, come ogni ideologia, il secolarismo impone una visione globale. Se Dio è irrilevante nella vita pubblica, allora la società potrà essere plasmata secondo un’immagine priva di Dio. Ma quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il “bene” comincia a svanire. Ciò che ostentatamente è stato promosso come umana ingegnosità si è ben presto manifestato come follia, avidità e sfruttamento egoistico. E così ci siamo resi sempre più conto del bisogno di umiltà di fronte alla delicata complessità del mondo di Dio».

Non c’è neutralità. L’ideologia della laicità come neutralità è appunto una ideologia, l’ideologia secolarista, che impone una sua visione assoluta. Vedere il mondo come non orientato a Dio non vuol dire essere neutri, vuol dire vedere il mondo come non orientato a Dio. Ci sono “ragioni” per ritenere che ci sia una vita oltre la morte almeno quanto ci sono ragioni per ritenere di no [6]. Chi crede nel nulla eterno non è più neutro di chi crede nella vita eterna. Presentare un mondo senza Dio non è sinonimo di scientificità, obiettività, serenità valutativa. Non significa non prendere posizione, è una precisa presa di posizione, che consiste nel dire che il mondo è senza Dio. Se lo Stato vieta i crocefissi non assume una scelta neutra, fa la scelta di togliere i crocefissi, vuole uno spazio pubblico senza crocefissi. Non lo vuole neutro, lo vuole in un certo modo: senza crocefissi.

Un passaggio del discorso di Benedetto XVI ricordato sopra sembra particolarmente realistico, frutto del realismo cristiano: “quando Dio viene eclissato, la nostra capacità di riconoscere l’ordine naturale, lo scopo e il “bene” comincia a svanire”. L’ordine naturale ha una sua relativa autonomia, ma non è autosufficiente, come ci insegna il salmo 127. Non ne tradiamo la natura se lo apriamo a Dio, anzi, ne realizziamo la vocazione e ne soddisfiamo il desiderio. Credo che i laici cristiani impegnati nella società e nella politica questo non l’abbiano ancora completamente compreso. Una insufficiente interpretazione della categoria della distinzione diventa di fatto separazione e Dio “sparisce dalla pubblica piazza” e noi dimentichiamo che la fede ha il potere di “ispirare una visione coerente del mondo ed un dialogo rigoroso con le molte altre visioni che gareggiano per conquistarsi le menti e i cuori dei nostri contemporanei” [7]. Ma forse alla base non l’hanno compreso nemmeno molte nostre comunità cristiane. Da dove cominciare? Dalle comunità cristiane? Sarebbe senz’altro positivo ed utile, come ho suggerito ed auspicato anche prima. Ma si potrebbe anche cominciare dai laici impegnati: siano essi a muovere le acque, a chiedere formazione di base, a creare scuole ed occasioni di formazione, ad adoperare, finalmente, in modo organico il Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, tanto citato ma poco letto, celebrato in tante occasioni - “occasionalmente”, verrebbe da dire -, ma poco adoperato.

Uno dei segnali, per molti versi assai preoccupante, del notevole lavoro da fare in questo senso, sulla linea degli insegnamenti del Santo Padre, è quanto constatiamo spesso in molti settori di impegno sociale e politico dei cattolici. Talvolta essi si autocensurano preventivamente quando devono entrare ad operare nell’arena pubblica. Se una cooperativa di ispirazione cristiana vince un appalto per un servizio pubblico, spesso riterrà di non doverlo svolgere il servizio riferendosi alla propria ispirazione cristiana, ma ad una generica e mediana “etica umana”, ritenendo che lo spazio pubblico non può ammettere riferimenti a fedi religiose. Ma è proprio in questo modo che Dio sparisce dalla “pubblica piazza”. Silenziosamente. Per omissione.

Se volessimo, invece, individuare, un fenomeno emergente, che di fatto si opporrà sempre di più a questi atteggiamenti di “dismessa identità” e che richiamerà con forza alla coerenza, dovremmo rifarci ai nuovi orizzonti dell’obiezione di coscienza. Ritengo che nel futuro l’obiezione di coscienza assumerà sempre di più una dimensione politica. I Consultori familiari cattolici che nel Regno Unito lottano per il loro diritto a non prestarsi all’adozione alle coppie omosessuali permesse da quell’ordinamento; i medici e gli operatori sanitari che chiedono di poter obiettare anche nei confronti dei nuovi farmaci abortivi e non solo nei confronti dell’aborto, diciamo così, tradizionalmente inteso [8];

gli ufficiali comunali che rifiutano di registrare le coppie omosessuali nei registri previsti dalle leggi che li riconoscono in vario modo e via. Potremmo indicare molti altri casi di frontiera in cui nel prossimo futuro si porrà la questione dell’obiezione di coscienza da parte dei cattolici. Sarà solo obiezione individuale, testimoniata personalmente, o ne faremo occasione di produzione culturale e di progettualità politica?

A riflettere con attenzione si comprende che al centro di tutti i nodi che ho indicato troviamo la Dottrina sociale della Chiesa, che di quei nodi è il vero “snodo”. Il cardinale Bagnasco insiste molto, e giustamente, sul fatto che la Chiesa italiana è una chiesa “di popolo”. Lo ha ripetuto a lungo anche il cardinale Ruini e lo stesso Benedetto XVI a Verona. Essere “di popolo” non è solo un dato sociologico, è un dato teologico che attiene al rapporto della Chiesa con il mondo, ed è anche un dato che chiama in causa la responsabilità culturale di animare e orientare il popolo. Ecco, è proprio dallo sviluppo di questa dimensione che potrà nascere la nuova generazione richiesta da Benedetto XVI a Cagliari. Dubito, però, che riusciremo, senza un utilizzo più consapevole e integrato della Dottrina sociale della Chiesa.

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1 G. Bernanos, Diario di un curato di campagna.

2 Ricordo che Etienne Gilson scriveva che Dio sarà veramente morto “quando si sarà finito di parlarne” (E. Gilson, L’ateismo difficile, Vita e Pensiero, Milano 1983, p. 22.

3 Cf Card. Renato R. Martino, Testimoni di carità costruttori di pace, Conferenza all’Assemblea Plenaria della Caritas internationalis, Città del Vaticano, 4 giugno 2007.

4 Benedetto XVI, Discorso al Collège de Bernardins, Parigi, 12 settembre 2008.

5 Congregazione per la dottrina della Fede, Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica

6 Socrate, almeno, davanti al nostro destino dopo la morte, sosteneva di “non sapere” (Platone, Apologia 29 A-B).

7 Benedetto XV, Discorso ai Giovani, Sidney, 17 agosto 2008.

8 E’ proprio di questi giorni la richiesta dei vescovi degli Stati Uniti di un ampliamento a questi casi del diritto all’obiezione di coscienza, perché è da considerarsi aborto anche un embrione sacrificato o anche una gravidanza interrotta farmacologicamente.