di Mirko Testa
ROMA, giovedì, 5 giugno 2008 (ZENIT.org).- La maggioranza delle donne costrette a prostituirsi che riceve un sostegno personalizzato e integrale, lungo un arco di tempo adeguato, riesce a cambiare vita e a riappropriarsi della perduta autonomia.
E’ l’esperienza raccontata da suor Aurelia Agredano, spagnola, delle Adoratrici Ancelle del Santissimo Sacramento e della Carità, durante un congresso internazionale dedicato alle religiose che si battono contro la tratta degli esseri umani, in corso a Roma fino al 6 giugno.
Intervenendo il 4 giugno, suor Aurelia ha illustrato i progetti portati avanti dalla sua congregazione, nata nel 1856 a Madrid per combattere il traffico delle donne finalizzato allo sfruttamente sessuale, e che oggi conta circa 1300 religiose sparse in 22 paesi (in quasi tutta l’America Latina ma anche in Giappone, Cambogia, Vietnam).
La fondatrice, santa Maria Michela del Santissimo Sacramento, era una esponente dell’aristocrazia spagnola, molto attiva sin dalla giovinezza nell’apostolato e nelle opere caritatevoli.
Una volta visitando i ricoverati dell’ospedale di S. Giovanni di Dio a Madrid, e prestando assistenza alle ragazze affette da malattie veneree, conobbe una giovane ammalata, “la chica del chal”, che era caduta vittima della malavita, convincendola in seguito a far ritorno in famiglia.
Fu allora che scoprì la realtà sociale della prostituzione e decise di fondare dei collegi per aiutare queste ragazze, vittime della miseria e dell’ignoranza.
Suor Aurelia Agredano, che ha vissuto per 8 anni a stretto contatto con questa realtà e con ragazze di diversi paesi cadute nella rete della tratta, ha parlato a ZENIT del Progetto “Esperanza” nato nel 1999 in Spagna.
“Si tratta di un programma che pone al centro la donna, con la sua realtà concreta e che richiede una scelta fatta in piena libertà”, ha spiegato.
“Più precisamente – ha continuato – , è un cammino segnato da tappe caratterizzate da obiettivi concreti e da diverse strutture di accoglienza, dove la donna è l’autentica protagonista e la destinataria di una attenzione individualizzata e integrale dal punto di vista fisico, psichico, sociale e sprituale”.
“In questo modo – ha detto la religiosa – dalla ‘vita quotidiana’ nelle nostre ‘Case famiglia’, cominciano a recuperare la fiducia persa, cominciano a partecipare attivamente, a riacquistare una vita normale con lo studio, la ricerca di un impiego, fino a giungere alla completa autonomia”.
Nelle tre case di accoglienza spagnole sono passate una cinquantina di donne, ma sono circa 300 quelle con cui sono in contatto.
“Siamo molto attive nella denuncia sociale – ha raccontato –, con azioni programmate attraverso i mezzi di comunicazione, le riviste, i video; diamo vita ad azioni di sensibilizzazione per generare spazi comuni di riflessione critica, ma soprattutto ci impegniamo nella formazione”.
“La nostra fondatrice vedeva infatti nella formazione l’unico mezzo di salvezza o riscatto per queste ragazze – ha aggiunto –. Per questo sono importanti la promozione e il reinserimento sociali, altrimenti si corre il rischio di farle cadere nuovamente nel medesimo circolo vizioso”.
“Il percorso di liberazione delle ragazze dura circa 2 anni – ha detto suor Aurelia – e non è semplice. All’inizio facciamo sensibilizzazione nelle questure, nei centri per immigrati, per donne, nelle ambasciate”.
“Nelle case di accoglienza viviamo insieme a loro, cercando di creare un clima di famiglia, con tutte le difficoltà che derivano dalla diversità di lingua e dalle dinamiche psicologiche derivanti dalle sofferenze che hanno patito”.
Spesso, tuttavia, non mancano minacce e rischi di ritorsioni da parte della criminalità che gestisce il traffico.
“Cerchiamo di essere molto prudenti – ha ammesso suor Aurelia – e agili nel cambiare abitazione da un posto all’altro. In Belgio abbiamo dovuto chiudere una casa perché eravamo minacciate”.
Al termine del percorso le ragazze possono decidere se rientrare in patria o se restare. “In questo caso diamo opportunità per studiare la lingua, formarsi e cercare un lavoro”, ha precisato la religiosa.
I finanziamenti dei progetti provengono in genere dalle congregazioni stesse o da fondazioni collegate, talvolta da sovvenzioni pubbliche e private.
“La nostra missione – ha proseguito – trae alimento dall’adorazione continua di Gesù Eucaristia, in spirito e verità, ed è mirata a liberare e promuovere la donna sfruttata per la prostituzione o vittima di altre situazioni di schiavitù”.
“Noi Adoratrici vogliamo guardare il mondo a partire dall’Eucaristia – ha detto suor Aurelia –; il Dio che adoriamo nel Sacramento è lo stesso che incontriamo ogni volta nelle donne a cui siamo inviate”.
“Come Adoratrici, affrontiamo la realtà della donna vittima della tratta, da una spiritualità e da una pedagogia concrete: la spiritualità eucaristica e la pedagogia dell’amore”.
Il segreto, ha detto, sta tutto qui: “Educare in libertà e con amore. ‘senza castighi né durezze’, come affermava la nostra fondatrice. Rispettare le giovani. Credere in loro. Fare in modo che ogni giovane si senta importante e protagonista del suo cammino”.