Discorso di Benedetto XVI a una delegazione della Facoltà Teologica dell’Università di Tübingen

CITTA’ DEL VATICANO, martedì, 27 marzo 2007 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito il discorso che Benedetto XVI ha rivolto a una delegazione della Facoltà Teologica dell’Università di Tübingen (Repubblica Federale di Germania), incontrata il 21 marzo scorso in Vaticano, al termine dell’Udienza Generale.

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Caro signor Vescovo,
stimato signor Decano,
gentili signori colleghi, se mi è consentito dirlo!

Vi ringrazio per questa visita e posso dire di rallegrarmi veramente di cuore per essa. Da un lato, l’incontro con il proprio passato è sempre una cosa bella, poiché ha in sé qualcosa che ringiovanisce. Dall’altro è però qualcosa di più che un incontro nostalgico. Lei stesso, signor Vescovo, ha detto che è pure un segno: un segno, da un lato, di quanto la teologia mi stia a cuore – e come potrebbe essere diversamente? -, poiché avevo considerato come mia vera vocazione l’insegnamento, anche se il buon Dio all’improvviso ha voluto diversamente. Inversamente, però, è anche un segno da parte vostra, che cioè vedete l’unità interiore tra la ricerca teologica, la dottrina e il lavoro teologico e il servizio pastorale nella Chiesa, e con questo l’interezza dell’impegno ecclesiale per l’uomo, per il mondo, per il nostro futuro.

Naturalmente ieri sera, in vista di questo incontro, ho incominciato a rovistare un po’ tra i miei ricordi. E così mi è tornato in mente un ricordo che ben si combina con ciò che Lei, signor Decano, ha appena esposto, vale a dire il ricordo del Grande Senato. Non so se ancora oggi tutte le nomine passino per il Grande Senato. Era molto interessante che quando, per esempio, doveva essere assegnata una cattedra di Matematica, o di Assiriologia, o di Fisica dei corpi solidi o qualunque altra materia, il contributo da parte delle altre Facoltà era minimo e tutto si risolveva piuttosto rapidamente, perché quasi nessuno osava dire la sua. Già un po’ diversa era la situazione nelle Discipline umanistiche. E quando si trattava delle cattedre di Teologia in entrambe le Facoltà, in fin dei conti, tutti dicevano la loro, sicché si vedeva che tutti i professori dell’Università si sentivano in qualche modo competenti in Teologia, avevano la sensazione di potere e di dovere partecipare alla decisione.

Ovviamente la Teologia stava loro particolarmente a cuore. Così, da una parte, si percepiva che i colleghi delle altre Facoltà in qualche modo consideravano la Teologia come cuore dell’Università e, dall’altra, che la Teologia, appunto, è qualcosa che riguarda tutti, in cui tutti si sentivano coinvolti e in qualche modo si sapevano anche competenti. In altre parole, a pensarci bene, questo significa che proprio nel dibattito sulle cattedre di Teologia l’Università poteva essere sperimentata come Università. Sono lieto di apprendere che ora esistono queste cooptazioni, più che in passato, sebbene Tübingen si sia sempre impegnata per questo. Non so se esista ancora il Leibniz-Kolleg del quale ho fatto parte; comunque la moderna Università corre assai il pericolo di diventare come un complesso di istituti superiori, uniti piuttosto esternamente e istituzionalmente e meno in grado di formare un’unità interiore di universitas.

La Teologia evidentemente era qualcosa in cui l’universitas era presente e dove si mostrava che l’insieme forma un’unità e che, appunto, alla base vi è un domandare comune, un compito comune, uno scopo comune. In ciò, penso, si può vedere, da una parte, un alto apprezzamento per la Teologia. Ritengo questo un fatto particolarmente importante che palesa che nel nostro tempo – in cui almeno nei Paesi latini la laicità dello Stato e delle istituzioni statali viene sottolineata fino all’estremo e quindi viene richiesto di lasciare fuori tutto ciò che ha a che fare con Chiesa, cristianesimo, fede – esistono intrecci da cui quel complesso che chiamiamo Teologia (che, appunto, è anche fondamentalmente collegato con Chiesa, fede e cristianesimo) non può essere scisso. Così diventa evidente che in questo insieme delle nostre realtà europee – per quanto, sotto un certo aspetto, siano e debbano essere laiche – il pensiero cristiano con le sue domande e risposte è presente e l’accompagna.

Dico che questo fatto, da un lato, manifesta che proprio la Teologia continua a dare in qualche modo il suo contributo a costituire ciò che è Università, ma dall’altro, esso significa naturalmente anche un’immensa sfida per la Teologia di soddisfare questa aspettativa, di esserne all’altezza e di svolgere il servizio che le viene affidato e che ci si aspetta da essa. Mi fa piacere che attraverso le cooptazioni diventi ormai visibile in modo assai concreto – ancora molto più di allora -, che il dibattito intra-universitario rende l’Università veramente quello che è, coinvolgendola in un collettivo domandarsi e rispondere. Penso, però, che sia anche un motivo per riflettere fino a che punto siamo in grado – non solo a Tübingen, ma anche altrove – di soddisfare questa esigenza. L’Università e la società, l’umanità, infatti, hanno bisogno di domande, ma hanno bisogno anche di risposte. E ritengo che a tal riguardo appaia per la Teologia – e non solo per la Teologia – una certa dialettica tra la rigida scientificità e la domanda più grande che la trascende e ripetutamente in essa emerge – la domanda sulla verità.

Vorrei rendere questo più chiaro mediante un esempio. Un esegeta, un interprete della Sacra Scrittura, deve spiegarla come opera storica «secundum artem», cioè con la rigida scientificità che conosciamo, secondo tutti gli elementi storici che ciò richiede, secondo la metodicità necessaria. Questo da solo, tuttavia, non basta, perché egli sia un teologo. Se si limitasse a fare questo, allora la Teologia, o comunque l’interpretazione della Bibbia, sarebbe qualcosa di simile all’Egittologia o all’Assiriologia, o a qualunque altra specializzazione. Per essere teologo e per svolgere il servizio per l’Università e, oso dire, per l’umanità – il servizio, quindi, che ci si attende da lui – egli deve andare oltre e domandare: Ma è vero ciò che lì vien detto? E se è vero, ci riguarda? E in che modo ci riguarda? E come possiamo riconoscere che è vero e che ci riguarda? Ritengo che in questo senso la teologia, pur nell’ambito della scientificità, sia richiesta e interpellata sempre anche al di là della scientificità. L’Università, l’umanità ha bisogno di domande. Laddove non vengono più poste domande, fino a quelle che toccano l’essenziale e vanno oltre ogni specializzazione, non riceviamo più nemmeno delle risposte. Solo se domandiamo e se con le nostre domande siamo radicali, così radicali come deve essere radicale la teologia, al di là di ogni specializzazione, possiamo sperare di ottenere delle risposte a queste domande fondamentali che ci riguardano tutti. Innanzitutto dobbiamo domandare. Chi non domanda non riceve risposta. Ma, aggiungerei, per la Teologia occorre, oltre il coraggio di domandare, anche l’umiltà di ascoltare le risposte che ci dà la fede cristiana; l’umiltà di percepire in queste risposte la loro ragionevolezza e di renderle in tal modo nuovamente accessibili al nostro tempo e a noi stessi. Così non solo si costituisce l’Università, ma anche si aiuta l’umanità a vivere. Per questo compito invoco per Voi la Benedizione di Dio.

[© Copyright 2007 – Libreria Editrice Vaticana; traduzione dell’originale in tedesco]

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ZENIT Staff

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