ROMA, venerdì, 23 marzo 2007 (ZENIT.org).- Secondo Xavier Tilliette la filosofia non deve essere obbligatoriamente cristiana e la cristologia nel suo essere filosofica non può mettere in secondo piano la Rivelazione cristiana per un filosofo credente, afferma Simone Stancampiano.
Dottore di Ricerca in “Filosofia e Teoria delle Scienze Umane” presso l’Università degli Studi “Roma Tre”, Stancampiano è autore di una monografia sul gesuita francese dal titolo “Cristologia filosofica in Xavier Tilliette. Fede e sapere in dialogo” (Trauben Editore, Biblioteca di Filosofia del “Centro Pareyson”, Torino 2007, pp. 224).
La prima parte dell’intervista è stata pubblicata il 22 marzo.
Sembra che in Tilliette la filosofia nella sua ricerca non possa non incontrarsi con Cristo, che è inerente alla natura e alla storia umane, così come la filosofia moderna e contemporanea, senza la visitazione del cristianesimo, si riduca ad una ideologia che mostra in maniera evidente una mancanza da colmare?
Stancampiano: Bisogna qui rispondere con estrema delicatezza, perché, come dire, ci muoviamo su un terreno spinoso! Tilliette è certamente figlio dello spiritualismo francese moderno e contemporaneo, che privilegia una via coscienziale e immanentistica, per cui Cristo è in noi, diventa una proprietà a-priori del nostro spirito o della coscienza (Idea Christi). L’Action di Blondel e il suo “pancristismo”, dove Cristo è il punto di sintesi e di unione del mondo intero, ne è un esempio, sulla scia del “verbocentrismo” di Malebranche. E possiamo citare Maine de Biran e Jean Nabert.
Ma se il soprannaturale nella sua gratuità (S. Agostino) viene naturalizzato nell’uomo, se è reso immanente e inerente in ognuno di noi, non si vede più come distinguere la natura con la Grazia; quest’ultima si è come “antropomorfizzata”, diventando una proprietà che si trasmette con la natura umana.
Attraverso il sottosuolo filosofico francese contemporaneo Tilliette incontra anche il gesuita tedesco Karl Rahner e i suoi Saggi di antropologia soprannaturale, letti per di più alla luce de La religione nei limiti della semplice ragione di Kant. Sebbene in quest’ultimo il nome di Cristo non sia mai fatto, è comunque implicito nella sua opera: l’Idea Christi kantiana è l’archetipo a-priori, l’Uomo perfettamente gradito a Dio o l’Idea personificata del Buon Principio, una proprietà della Ragione, la cui sede originaria è nella coscienza dell’uomo; idea che si schematizza in rappresentazioni e determinazioni che sono “ricalcate” sulle testimonianze del Cristo esistente, storico, regola d’oro dell’umanità perfetta che funge da “criterio”, da “mezzo di prova”. L’argomentazione kantiana – che procede su due strade parallele che non si incontrano mai, tra l’Idea Christi della ragione e la storia della salvezza edificante, di cui Cristo è l’attore anonimo – è sottoposta ad un procedimento “trascendentale”, per cui la possibilità, l’“a-priori” guidano l’esistenza o la verifica dell’esperienza. Karl Rahner a sua volta mette in circolazione nel pensiero contemporaneo la nozione di “Idea Christi” facendone l’asse della sua “cristologia trascendentale” e “antropomorfica” e del suo cristianesimo anonimo, implicito; metodo trascendentale proprio anche della scuola belga di Joseph Maréchal.
Questi rimandi confermano che la cristologia filosofica di Tilliette è trascendentale, anche se questa è solo “una” (e pur fondamentale) delle vie metodologiche che il nostro gesuita utilizza. Ma “in primis” egli ha voluto sollevare il velo dell’anonimato del Cristo, che si nasconde in tante produzioni filosofiche e letterarie della Modernità e della post-Modernità.
Posso dire che nell’incontro con Cristo la filosofia ne rimane segnata; ma appare più problematico asserire che l’intera filosofia occidentale sia “cristocentrica”, come invece sembra emergere dal fatto che Cristo sia “inerente” alla natura e storia umane. Così come mi sembra riduttivo connotare di semplice ideologia una filosofia senza Cristo.
Aggiungo però con franchezza che Tilliette è al di fuori di questi pericoli perché non ha mai affermato che qualunque filosofia “debba” essere obbligatoriamente cristiana e che il cristianesimo, una volta entrato nella storia, abbia innestato un processo “irreversibile”, trasmettendosi in noi senza esserne coscienti (come invece nei cristiani “anonimi” di Rahner). Dall’altro lato, la cristologia nel suo essere filosofica non può mettere in secondo piano la Rivelazione cristiana per un filosofo credente.
Nel difficile rapporto tra Idea Christi e storia di Gesù di Nazareth, che pericolo corre la Rivelazione cristiana?
Stancampiano: Corre il pericolo di una gnosi, di una grande gnosi moderna, di una fede ridotta a ragione filosofica. E’ il rischio di una cristologia filosofica che, quasi per essere fedele a se stessa e cioè essere filosofica e speculativa, svuoti il significato dell’evento-Cristo, se l’Idea “fagocita” in sé l’Incarnazione, come in alcuni grandi sistemi dell’Idealismo tedesco.
Agli occhi di Tilliette, Schelling fin dalla prima fase del suo pensiero è stato colui che si è maggiormente interrogato sul fatto che l’Idea Christi – e di cristianesimo – fosse “più vecchia” della Rivelazione propriamente detta di Cristo (Prologo giovanneo), un’idea che stesse nel mondo “prima ancora” dell’Incarnazione effettiva. Così l’Incarnazione appare “da tutta l’eternità” e il cristianesimo diventa “eterno”: il Cristo della storia e della fede quasi scompare tra le “fauci” dell’Idea!
Anche il secondo Schelling conserverà sempre, sia pur in termini attenuati, una sorta di diffidenza verso l’empirico: l’apparizione terrena di Gesù non è altro che un “episodio” e una trasformazione nel processo della caduta e della reintegrazione, Secondo Principio che emerge nella coscienza umana dopo una lunga vita sotterranea, una “fase” del suo lungo processo kenotico e mitologico. E’ un problema teoretico: se nella filosofia dell’ultimo Schelling solo l’essenza, il concetto, l’idea del Cristo si deduce a-priori e non l’esistenza, la venuta di Gesù in terra, la Sua Rivelazione rimane casuale, episodica. “Questa” cristologia filosofica è incapace di conciliare la categoria del “concetto” con quella dell’avvenimento, l’a-priori con la nascita di Cristo.
In questo senso alcuni sistemi dell’Idealismo tedesco si riducono a gnosi cristiana; rischio da cui non rimangono immuni neanche delle figure dello spiritualismo francese contemporaneo come Michel Henry, che parla di una generazione eterna del Verbo nell’uomo, mentre la traccia “storica” del Cristo è tenue.
Riguardo la “Romantik” Tilliette ha avuto comunque nel corso degli anni un cambiamento di prospettiva, in particolare verso Hegel, prima piuttosto criticato poi mano a mano suo possibile alleato nella sua apologia della cristologia filosofica, giudizio più benevolo che mi sembra uscire fuori a partire dai lavori degli anni Novanta del Novecento del nostro gesuita. Fino alla Fenomenologia dello Spirito predomina nello Hegel di Tilliette l’aspetto riduttivo gnostico: gli eventi cristiani divengono “simboli” e rimandano ad una verità necessaria e ideale. La storia del mondo è descritta come un “Golgotha di figure”! Il sistema compiuto hegeliano – quello delle lezioni universitarie berlinesi – appare invece, agli occhi di Tilliette, più “ortodosso” dal punto di vista cattolico, ponendo l’accento sulla figura storica di Gesù di Nazareth. In più il filosofo francese non ha mai ritenuto responsabile Hegel di una certa deriva ateistica contemporanea.
Q
ual è secondo Tilliette il Cristo della filosofia che compare sotto le sue diverse metamorfosi e figure umane, come frutto della storia culturale, filosofica e letteraria del ‘900?
Stancampiano: Ho accennato nella prima risposta al fatto che l’Idea Christi, che secondo Tilliette procede dalla fede o dalla ragione credente, si schematizza necessariamente e si declina proprio in simboli, e che secondo questa prospettiva parecchie rappresentazioni – nella filosofia, letteratura, nelle opere d’arte – derivano dall’origine cristica, esplicita o implicita. Per il nostro gesuita c’è nel pensiero filosofico e non solo un Cristo latente che può divenire, che nelle sue diverse metamorfosi corre però il rischio di costruire tante cristologie filosofiche quanti sono i suoi surrogati (propri ad esempio della secolarizzazione culturale), senza un “Leitfaden”, una guida trascendentale, senza ormai più l’ausilio dell’Idea.
E’ proprio la transizione dal plurale al singolare, il passaggio dalle copie all’originale il problema centrale per la fondazione de “la” cristologia filosofica secondo Tilliette, ossia lontana da qualsiasi forma di gnosi ma che dia valenza filosofica all’evento Cristo e alla sua Rivelazione. E’ il Cristo della filosofia, dopo il Cristo “dei” filosofi, di tante e troppe interpretazioni, “vetrate cristologiche”, da completare con il Cristo fenomenologico, di cui ho accennato sopra.
La “frantumazione” della filosofia, dal XVIII al XX secolo, ha portato in sé un destino che si riverbera anche sulla cristologia: Tilliette vede fin da Jean-Paul Richter il delinearsi di un “Cristo dei non-credenti”, che guida la carovana umana degli orfani di Dio. E ancora in Dostoïevskij Cristo è il Visitatore silenzioso nella “Leggenda del Grande Inquisitore” della Siviglia quattrocentesca. E più recentemente, il romanziere greco contemporaneo Nikos Kazantzakis ne “L’ultima tentazione”, opera filmata da Martin Scorsese, descrive un Gesù troppo umano fuori dai Vangeli canonici, trovando l’opposizione della Chiesa cattolica.
Solo rappresentazioni del Cristo, non adatte ad una cristologia filosofica autentica – dice Tilliette! Ma da queste figure umane, solo intravisto tra le Sue metamorfosi, “esce fuori” il Cristo “Exodus”, il Cristo della filosofia, autentico del pensiero, fonte di senso, il cui incontro, l’incontro con la sua Persona, non fa che suggestionare ancora oggi anche chi si affaccia a Lui senza l’ausilio della fede.