A 40 anni dalla Populorum progressio si conferma l’insostenibilità del sottosviluppo (I)

Intervista a Simona Beretta, professore straordinario di Politiche Economiche internazionali

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ROMA, venerdì, 16 marzo 2007 (ZENIT.org).- Il 26 marzo del 1967, l’allora Pontefice Paolo VI pubblicò l’Enciclica Populorum progressio, in cui sottolineava che “lo sviluppo è il nuovo nome della Pace”.

A quaranta anni da questo documento papale il dibattito su come superare il sottosviluppo, causa di fame, malattie e ingiustizie è ancora al centro dell’attenzione della comunità internazionale.

Per approfondire il senso dello sviluppo umano in relazione agli insegnamenti della Dottrina sociale della Chiesa, ZENIT ha intervistato Simona Beretta, docente presso la Facoltà di Scienze Politiche dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano, consultore del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace e membro del Comitato Scientifico dell’Osservatorio Internazionale “Cardinale Van Thuan.

Senz’altro una delle affermazioni più forti dell’Enciclica è quella secondo cui il vero sviluppo riguarda tutti gli uomini e tutto l’uomo. Come vede questa centralità dell’uomo nello sviluppo?

Beretta: Questa affermazione, chiara e sintetica, esprime sia la cura per ciascuna persona, concreta e storica, nella pienezza della sua umanità; sia la consapevolezza della unità della famiglia umana e della interdipendenza che lega tutti, realmente tutti, i suoi membri. Sono convinta che questi due “paletti” rappresentino i criteri di giudizio fondamentali per identificare che cosa è sviluppo e cosa non lo è; quali iniziative concrete siano efficaci e quali no; quali contribuiscano ad una maggiore giustizia e quali no. Rispetto a tante parole fumose che oggi vanno per la maggiore quando si parla di sviluppo, l’affermazione pone un criterio di verifica molto preciso.

Le responsabilità dello sviluppo sono solo dell’Occidente sviluppato?

Beretta: Se lo sviluppo riguarda ciascun uomo nella sua interezza, c’è una responsabilità dello sviluppo che riguarda innanzitutto chi è “vicino” alla persona storica e concreta: la sua famiglia, la sua comunità di appartenenza, il suo paese. Il contesto “vicino” può significativamente sostenere, oppure impedire, che la singola persona cresca nella consapevolezza di sé, nel suo progetto di vita, nella sua partecipazione alla vita economica e civile.

Al contempo, è anche vero che lo sviluppo riguarda tutti gli uomini, legati fra loro da una oggettiva interdipendenza: quindi, tutti siamo realmente responsabili di tutti. Poiché nei processi di interazione è molto facile che la parte più forte riesca ad assumere posizioni dominati e a condizionare pesantemente l’ambiente in cui i più deboli si trovano ad operare, esiste anche una responsabilità specifica di chi si trova nella posizione “forte”. Una responsabilità che impone all’attore forte sia la consapevolezza del proprio ruolo, sia la capacità di immedesimarsi realmente nelle aspirazioni e nei bisogni delle persone e delle realtà sociali più deboli.

L’Occidente nel suo complesso porta dunque delle responsabilità specifiche – potremmo riassumerle nell’esigenza che l’Occidente contribuisca attivamente, per la sua parte, a plasmare un sistema di regole e di istituzioni che favoriscano la giustizia nelle relazioni fra i popoli: in particolare favoriscano la possibilità che gli attori deboli partecipino proficuamente alle attività di produzione e di scambio internazionali e all’uso delle risorse tecnologiche e finanziarie di cui l’Occidente abbonda. Ma i “forti” non sono solo in Occidente: ad esempio, è fondamentale che le élites locali interne ai paesi poveri si assumano creativamente e costruttivamente la loro responsabilità nei processi di sviluppo, costruendo un bene realmente comune.

Paolo VI denunciava, tra l’altro, la cosiddetta fuga dei capitali all’estero, perché deprivavano la propria nazione delle risorse necessarie. Oggi, con la globalizzazione, crede sia superata quella indicazione?

Beretta: La globalizzazione finanziaria indubbiamente facilita la connessione fra risparmiatori e investitori di diversi paesi; ma siamo molto, molto lontani da poter tranquillamente affermare che i capitali che “fuggono” da un paese in difficoltà sono comunque disponibili sul mercato globale, per cui possono “tornare” a quel paese. Molti indicatori relativi al grado di integrazione finanziaria globale segnalano che il sistema finanziario è ancora molto frammentato: solo alcuni paesi sono realmente integrati, mentre la maggior parte dei paesi partecipa alle vicende finanziarie in modo marginale, oppure in modo passivo, subendo localmente le conseguenze anche fortemente negative di quanto gli attori finanziari “forti” stanno decidendo sulla base dei loro (magari legittimi) interessi.

Il caso delle fughe di capitali è un esempio importante di “scollatura” fra gli interessi di chi dispone di ricchezze in un paese povero e gli interessi del paese nel suo complesso. Tuttavia, è un fenomeno che deve essere adeguatamente compreso nelle sue cause; ad esempio, un governo che crei condizioni di disordine macroeconomico e inflazione potrebbe avere la sua parte di responsabilità nel determinare la scelta privata di trasferire i capitali all’estero.

Diciamo che la frase di Paolo VI non è superata nella sostanza: oggi come allora, chi ha ricchezza e potere è chiamato a usarne in modo che esprima la consapevolezza della interdipendenza che ci lega tutti, e che sia orientato ad un bene realmente comune; oggi come allora, chi possiede dei beni è chiamato a non chiudersi nel perseguimento di interessi limitati al proprio tornaconto immediato

Paolo VI si soffermava molto nella Populorum progressio sul problema degli aiuti. In questo campo cosa si è sbagliato in questi anni?

Beretta: Molto è stato fatto; e – come è noto – chi fa … sbaglia. Si può sbagliare per carenza di informazione e per inesperienza, e questi sbagli mi sembra possano essere compresi e messi in conto ai nostri limiti. Ma si sbaglia anche per l’orgoglio tipico di chi in fondo è convinto di poter manipolare meccanicamente la realtà: si punta sulla attuazione di progetti, dei quali si suppone di poter prevedere compiutamente gli effetti … di solito con esiti abbastanza deludenti. Si sbaglia per l’orgoglio di chi dona, ma concepisce i destinatari come recipienti passivi. Si corre molto meno il rischio di sbagliare, invece, quando si riconosce che i processi di sviluppo sono mossi, al fondo, dalla azione libera e ultimamente imprevedibile delle persone e delle loro iniziative sociali; quando si coinvolgono i poveri nella individuazione e nella realizzazione di cosa serve loro.

Quanto detto vale in generale, vorrei però approfondire il caso particolare degli aiuti pubblici allo sviluppo. La Populorum progressio li riteneva essenziali e proponeva addirittura la realizzazione di un Fondo Mondiale, alimentato da parte delle spesi militari, per attuare programmi a favore delle popolazioni più povere (n. 51). Gli aiuti pubblici, in questi quarant’anni, sono stati insufficienti in quantità e hanno presentato caratteristiche qualitative non del tutto desiderabili. Gli aiuti bilaterali (fra Stato e Stato) sono spesso stati dettati dagli interessi geopolitici e dalla linea di politica estera del donatore più che dalla preoccupazione per la lotta alla povertà; ancora, gli aiuti sono stati spesso vincolati nella loro destinazione (tied aid) e quindi sono serviti più da sostegno alle imprese del paese donatore che da motore per uno sviluppo autoctono nel paese ricevente. Ricordiamo anche che, almeno fino al 1989, gli aiuti allo sviluppo sono stati spesso dettati dalla logica della guerra fredda, e hanno contribuito a lasciare dietro di sé una pesante eredità di conflitti latenti, di ingiustizie subite o percepite, di dipendenza dagli aiuti stessi.

Tuttavia, gli aiuti pubblici rim
angono indispensabili; anzi, negli anni recenti si è acceso un certo dibattito su come creare meccanismi innovativi di finanziamento dello sviluppo (tassazione internazionale, prestiti pubblici vincolati allo sviluppo, lotterie…). Molte pratiche relative agli aiuti sono cambiate; spesso, i fondi pubblici co-finanziano iniziative di sviluppo promosse da realtà non governative. Tutto questo è molto interessante, ma rimane da imparare ancora come evitare concretamente gli sbagli dovuti all’orgoglio tecnocratico dei donatori.

[Domenica, la seconda parte dell’intervista]

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ZENIT Staff

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