Contro i tentativi di legalizzazione dell’eutanasia

ROMA, domenica, 5 gennaio 2006 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito per la rubrica di Bioetica l’intervento della dottoressa Claudia Navarini, docente presso la Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum.

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L’eutanasia legale è una grave patologia. Può colpire tutti. E si sta diffondendo: si registra un numero crescente di casi in vari paesi del mondo occidentale, mentre altrove non vi sono dati disponibili. La realizzazione del vaccino, ovvero un sano sviluppo della coscienza morale, è ancora lontana, nonostante l’encomiabile impegno dei tanti gruppi e movimenti che difendono il valore intrinseco della vita umana.

Quel poco di storia che esiste nel mondo, in tema di legalizzazione dell’eutanasia, dimostra in effetti che agevolare il ricorso alla pratica – ad esempio permettendola per legge, seppure con vari limiti – produce esiti devastanti, e rende chiunque un potenziale candidato alla “morte dolce”. Si badi: non nel senso che chiunque potrebbe, ad un certo punto, chiedere di morire, ma nel senso che nessuna tipologia di persona sfugge veramente a tale eventualità. Nemmeno i depressi, i disabili, gli indigenti, i pazienti in stato di incoscienza, i bambini.

E questa realtà, troppo poco raccontata, dovrebbe far riflettere. Anche in Italia, dove da alcuni anni si notano tentativi di introduzione dell’eutanasia nell’ordinamento, il processo è pericolosamente in atto. Basta considerare il documento annunciato da nove società scientifiche, insieme al Comitato Toscano di bioetica e dall’ordine dei medici della Toscana, per il prossimo 18 febbraio, in cui si chiederà la rinuncia alle cure intensive per i neonati gravemente prematuri.

Il comitato Scienza e Vita e il Movimento per la Vita Italiano, a fronte di tale notizia, hanno tempestivamente rilasciato un comunicato stampa che ribadisce la differenza abissale fra rinuncia all’accanimento terapeutico, doverosa nel caso di “evidente inutilità degli interventi che dovrebbero permettere di evitare la morte del neonato”, ed eutanasia neonatale, perpetrata per “il timore di una vita disabile” (Comunicato stampa n. 3 del 3/02/2006, Bambini prematuri: no ad accanimento, ma anche all’idea che vita vale solo a certe condizioni).

Il comunicato si appella alla stessa legge 194/1978 sull’interruzione di gravidanza, che all’art. 7 precisa il dovere di fare “tutto il possibile per salvaguardare la vita del neonato” nel caso in cui, per un pericolo di vita della madre, si faccia ricorso all’aborto in un’epoca gestazionale compatibile con la vita autonoma del feto. Dunque, continua il comunicato, la morte provocata di un neonato, anche per omissione, non è “giustificata né dalla previsione delle anomalie che avrebbero potuto indurre ad una I.V.G., né dai rischi aggiuntivi derivanti dalla grande prematurità”.

Una simile posizione sull’eutanasia pediatrica è stata espressa dal Comitato Nazionale per la Bioetica (CNB) in una mozione dello scorso anno (CNB, Mozione sull’assistenza a neonati e a bambini afflitti da patologie o da handicap ad altissima gravità e sull’eutanasia pediatrica, 28 gennaio 2005). Anche lì viene denunciato il fondamento vistosamente eugenetico dell’eutanasia praticata su non consenzienti, in particolare sui bambini, in ragione delle malattie o anomalie che potrebbero comprometterne la qualità di vita. Il valore e la dignità di una vita umana, infatti, non si basano sul possesso di determinate funzioni o capacità, in fondo sempre contingenti, ma su quell’elemento essenziale e necessario che potremmo chiamare natura umana, e che rappresenta la causa ultima di ogni manifestazione superiore, ciò che permette alle “facoltà tipicamente umane” di manifestarsi se non vi sono condizioni avverse, ovvero impedimenti fisio-psichici.

Non è in ragione della qualità di vita, o delle manifestazioni di razionalità, o dei personali legami di affetto, che dobbiamo difendere la vita umana, bensì per il suo significato intrinseco, che fortunatamente non dipende da noi, né da chiunque altro. Solo per un assurdo abuso di potere – il potere dei “sani” e degli “esperti” – si può pensare di decidere chi sia degno di vivere e chi di morire, avallando un principio discriminatorio su base sanitaria o genetica che mina alla radice la possibilità stessa della civiltà e del diritto (cfr. C. Navarini, Procreazione assistita? Le sfide culturali: selezione umana o difesa della vita, Portalupi Editore, Casale Monferrato 2005).

L’eutanasia neonatale, che è in un certo senso quella più “facile”, più elegantemente occultabile sotto il grande cappello della “grave prematurità”, costituisce una tappa quasi obbligata nel cammino progressivo di negazione del senso della vita che affligge le società contemporanee, assillate dalla preoccupazione del benessere materiale e della massimizzazione del piacere.

Così, ad esempio, in Francia è frequente la prassi di non rianimare neonati prematuri o gravemente disabili, mentre in Olanda la legge sull’eutanasia, in vigore dal 2001, è stata recentemente applicata, in via sperimentale, anche ai bambini al di sotto dei dodici anni (cfr. C. Navarini, Un prevedibile esito della legge olandese: eutanasia anche ai neonati, ZENIT, 5 settembre 2004). D’altra parte, il progetto di legge presentato poche settimane fa in Italia dalla “Rosa nel pugno” prevederebbe addirittura il consenso presunto alla non rianimazione (C. Navarini, Eutanasia: i privilegi artificiosi attribuiti alla “vita sana”, ZENIT, 22 gennaio 2006) . E un neonato o un bambino sarebbero, palesemente, le prime vittime.

A parte le considerazioni scientifiche sull’aspettativa di vita dei neonati prematuri e sulle loro possibilità di recupero, spesso assai migliori dei pronostici, occorre puntualizzare che i bambini in pericolo di vita o morenti possono essere validamente assistiti attraverso un adeguato uso delle cure palliative, che costituiscono, a qualunque età, una risposta effettiva al disagio e al dolore della malattia. Nulla è più falso, in questo senso, della “compassione” che anima le associazioni pro-eutanasia.

In un interessante articolo pubblicato nel 2000 sulla rivista “Pediatrics”, l’American Academy of Pediatrics (AAP) afferma la sua preoccupazione “per le notizie riguardanti l’eutanasia involontaria dei bambini e il suicidio assistito degli adolescenti. L’AAP non supporta la pratica del suicidio medicalmente assistito e dell’eutanasia ai bambini” (AAP, Palliative Care for Children,, “Pediatrics”, 106, 2 agosto 2000, pp. 351-357).

È qui necessario distinguere: per quanto concerne i bambini piccoli, e in generale coloro che non possono esprimere il consenso, si parla giustamente di eutanasia involontaria. Per prevenire sentimenti di disperazione nei familiari e di falsa pietà nei medici – che potrebbero spiegare alcune scelte di tipo eutanasico – l’AAP raccomanda di applicare correttamente le cure palliative, in senso fisico, psicologico, morale, sociale e spirituale, lungo tutta la malattia del bambino, e non di limitarle all’imminenza della morte che, proprio per la maggior variabilità di risposta infantile alle patologie, è spesso difficile da prevedere.

Ciò porta ad estendere, soprattutto per i pazienti più piccoli, la comune idea delle cure palliative come ciò a cui si ricorre quando “tutte le opzioni terapeutiche sono state esaurite”. Ampliando tale definizione fino ad includere “i bambini che vivono in condizioni di pericolo di vita, tutti i bambini che necessitano di cure palliative potrebbero beneficiarne” (ibid.).

Per quanto riguarda gli adolescenti, e tutti i minorenni ritenuti capaci di decidere, si ricade nel più vasto problema dell’eutanasia su richiesta o del suicidio assistito come “diritti” dei morenti e dei sofferenti in genere. Anche in tale situazione, ricorda ancora l’AAP, le cure palliative sono di grande aiuto: “con la somministrazione di cure palliative competenti e compassionevoli, incluso l’uso adeguato dell’anestesia e de
lla sedazione per il trattamento di sintomi in rapida progressione, le richieste di anticipare la morte sono generalmente abbandonate” (ibid.).

E tuttavia, nel caso di reiterata e insistente manifestazione della volontà di morire, occorre considerare i limiti costitutivi dei diritti dei pazienti, poiché il rispetto della volontà altrui “non implica il diritto di un paziente ad ottenere assistenza nel commettere suicidio” (ibid.). Con un simile atto, infatti, si andrebbe molto al di là del giusto rapporto fra medico e paziente, estendendo ampiamente oltre i confini il potere del paziente oppure, nello scenario prima descritto dell’eutanasia involontaria, quello del medico.

Un’importante parola va spesa a favore di una formazione attenta del personale sanitario all’utilizzo della terapia del dolore, che rappresenta una parte significativa delle cure palliative. Esiste infatti un circolo vizioso che si viene talora a creare nel trattamento del dolore dei malati in fase terminale: l’uso di analgesici oppiodi è inizialmente offerto in misura inferiore ai bisogni del paziente per il timore degli effetti indesiderati del farmaco – dipendenza, intontimento, perdita di coscienza, anticipazione della morte – , provocando così uno stato di prostrazione nel paziente che si traduce anche in depressione e disperazione, al punto da portare i medici (con o senza richiesta del paziente) ad utilizzare magari lo stesso oppioide per anticipare il momento della morte come “ultima risorsa” contro le sofferenze insopportabili.

La questione del legame fra analgesici oppiodi – come la morfina – e anticipazione della morte è oggetto di numerosi studi da parte della medicina palliativa più recente. I risultati sono del tutto confortanti: è oggi possibile servirsi di tali farmaci senza incorrere negli effetti collaterali più pesanti, e dunque in piena serenità. Già da tempo si parla di duplice effetto, e dunque di assenza di responsabilità morale nel caso in cui un analgesico, somministrato al fine di lenire il dolore, abbrevi la vita di un morente.

Il ricorso al principio del “duplice effetto”, tuttavia, non è attualmente necessario. Lo afferma uno studio del gruppo parlamentare trasversale britannico Dying Well, diffuso pochi mesi fa nell’ambito dell’intenso dibattito che agita la Gran Bretagna sulla legalizzazione dell’eutanasia. Dice il documento: la nozione di duplice effetto è “inappropriata, inaccettabile e non necessaria nell’attuale pratica delle cure palliative”, in quanto la strategia corretta è quella di “controllare i sintomi evitando o riducendo al minimo gli effetti indesiderati. Tale obiettivo si ottiene usando la morfina e altri oppioidi ad una opportuna dose iniziale, e incrementando lentamente la quantità fino al controllo del dolore, ma senza effetti secondari inaccettabili” (All Party Palriamentary Group on Dying Well, The facts behind morphine and palliative care).

In altre parole, si tratta di individuare la posologia e il dosaggio in grado di mantenere il livello di oppiodi nel sangue sopra la soglia del dolore ma sotto quella della tossicità, e tale obiettivo è perfettamente praticabile in quasi ogni paziente, anche grazie alla possibilità di modificare l’oppioide o di combinarlo con altri farmaci. Nei casi più refrattari è possibile praticare trattamenti come l’analgesia spinale, mentre la sedazione cosiddetta terminale, cioè la perdita indotta della coscienza per tutto il tempo che precede la morte, è raramente necessaria.

La buona pratica clinica, insieme alla coscienza del bene dei pazienti e ad un sano sfondo antropologico, convergono nell’individuare la causa dell’eutanasia nella perdita del senso della vita e della sofferenza, anche in conseguenza del trattamento inadeguato della fase depressiva che normalmente attraversano i malati a prognosi infausta (cfr. E. Kubler-Ross, On Death and Dying, Taylor & Francis Ltd, 1973).

Nel giorno in cui si celebra la 28° Giornata per la vita, è più che mai necessario riaffermare con determinazione il valore inalienabile della vita umana in ogni condizione, considerando che “la persona realizza se stessa quando riconosce la dignità della vita e le resta fedele, come valore primario rispetto a tutti i beni dell’esistenza, che conserva la sua preziosità anche di fronte ai momenti di dolore e di fatica” (Consiglio Episcopale Permanente. Rispettare la vita. Messaggio per la 28° Giornata per la vita , 25 novembre 2006).

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ZENIT Staff

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