Famiglia e unioni di fatto: il ruolo della Chiesa Cattolica

ROMA, domenica, 16 maggio 2004 (ZENIT.org).- Di seguito pubblichiamo per la rubrica di Bioetica la risposta della dottoressa Claudia Navarini, docente della Facoltà di Bioetica dell’Ateneo Pontificio Regina Apostolorum, alla domanda di una lettrice sul tema riguardante il comportamento della Chiesa Cattolica di fronte alle cosiddette “unioni di fatto”.

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Oggi in classe stavamo parlando di Costantino e il discorso si è evoluto fino ad arrivare ai rapporti odierni tra Chiesa e Stato. Il mio professore ad un certo punto ha detto che, a suo parere, la Chiesa chiude gli occhi di fronte ad alcune realtà che ormai sono un fatto comune e ha citato come esempio il fatto che i Vescovi nel difendere l’istituto famigliare, affermando di non volere, ad esempio, le unioni di fatto, ostacolano la creazione di una legislazione che le disciplini. Ha parlato, poi, di eventi spiacevoli come il fatto che se uno dei due sta male, l’altro, non essendo per legge nessuno nei riguardi del paziente, non avrebbe neanche il diritto di chiedere informazioni circa la sua salute. E io sinceramente non sapevo cosa pensare….Credo che lei sia più informata di me rispetto a quello che fanno i Vescovi, perciò le chiedo una mano. Soprattutto dal momento che a me non sembra assolutamente proprio del modo di agire cristiano fasciarsi gli occhi di fronte alla realtà. – Anna Aresi

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Molte persone sostengono che la Chiesa nega alcuni “fatti comunemente accettati” o, con termine più impegnativo, alcuni “dati di fatto”. Ora, per “dati di fatto” si possono intendere tre diverse realtà:
1. qualcosa che è costitutivamente in un certo modo, come quando si dice: “è un dato di fatto che gli oggetti liberi di muoversi tendono a cadere verso il basso”; oppure: “è un dato di fatto che tutti gli uomini aspirano alla felicità”;
2. qualcosa che è avvenuto e quindi è immutabile; ad esempio è un dato di fatto che l’11 settembre del 2001 gli Stati Uniti d’America hanno subito un terribile attentato che ha distrutto le Torri Gemelle di New York gremite di persone;
3. qualcosa che accade, ma non necessariamente, ed è modificabile in quanto attiene alle scelte dell’uomo. Ad esempio, si può affermare che, di fatto, il numero dei matrimoni in Italia è andato calando vistosamente negli ultimi trent’anni; oppure che è un fatto il sistematico ricorso alle droghe cosiddette “leggere” da parte di una cospicua fetta di giovani frequentatori di discoteche; ancora, è un dato di fatto che l’Italia sta subendo un drammatico calo demografico.

Nel corso della sua riflessione millenaria sull’uomo, la Chiesa Cattolica non ha mai, evidentemente, negato fatti del secondo tipo, che non sono per definizione oggetto di disputa, ma semmai di accertamento; in questo senso, anzi, la Chiesa ha sempre auspicato l’affermarsi della verità storica.

Ha sempre ricercato verità del primo tipo, promuovendo costantemente l’indagine filosofica sui fondamenti della realtà e insieme la conoscenza empirica e sperimentale. A differenza della mentalità corrente, infatti, la Chiesa riconosce l’esistenza di una verità che pre-esiste alla conoscenza umana e all’esistenza individuale, e che l’intelletto umano può cogliere per via naturale.

Il Catechismo dice infatti che “Ancor prima di rivelarsi all’uomo mediante parole di verità, Dio si rivela a lui per mezzo del linguaggio universale della Creazione, opera della sua Parola, della sua Sapienza: l’ordine e l’armonia del cosmo che sia il bambino sia lo scienziato sanno scoprire, la grandezza e la bellezza delle creature fanno conoscere, per analogia, l’Autore, [Cfr. ⇒ Sap 13,5 ]” ( CCC, n. 2500).

Le verità del terzo tipo implicano solitamente la dimensione etica, pertanto la Chiesa non le nega come “dati di fatto”, cioè in quanto comportamenti che avvengono, ma ne contesta la liceità morale, quando contraddicono la verità naturale e quindi il bene per l’uomo. In questo senso, dire che il numero degli omicidi è in aumento non significa accettare la validità dell’omicidio. In realtà, il bene e il male morali non sono soggetti a variazioni per ragioni culturali o sociali, e proprio per questo la Chiesa non ha mai modificato la sua definizione di bene e di male, né ha mai cambiato le sue posizioni etiche.

Al contrario, la tendenza comune del nostro tempo è quella di approvare non ciò che è buono, perché tale si presenta alla ricognizione sincera dell’intelletto e dunque al giudizio della coscienza, ma ciò che è “consueto” o “praticato dalla maggioranza”, talora ciò che è “legale”. Il fraintendimento che spesso soggiace a tali atteggiamenti è quello di non ritenere eticamente rilevanti comportamenti che invece lo sono, attribuendo loro la semplice valenza di opzioni. In altre parole, quando si dice: “non si può più fare a meno di internet”, non si esprime un giudizio etico sulla rete, ma una valutazione di opportunità sull’uso di uno strumento in sé neutro. Dicendo invece: “non si può ignorare la diffusione delle coppie di fatto in alternativa alla scelta matrimoniale”, si tenta di trasformare in una mera opportunità ciò che costituisce un fondamentale ambito di valutazione etica.

La famiglia fondata sul matrimonio, infatti, non è uno strumento o un’alternativa fra molte possibili per costruire una società, ma la massima realizzazione naturale dell’amore umano, il luogo proprio della generazione e dell’educazione dei figli, e infine il modello della convivenza sociale. È significativo che il matrimonio, prima ancora di essere sacramento, fosse considerato cosa “sacra”, e che tutte le civiltà in ogni tempo abbiano voluto sancire pubblicamente e ritualmente l’unione dell’uomo e della donna.

L’amore dichiarato con il legame coniugale, infatti, ha le caratteristiche dell’unicità (o esclusività, cioè comporta la fedeltà), della totalità (consiste nel dono totale e indissolubile di sé all’altro), della pubblicità (implica una responsabilità di fronte alla società). Tali condizioni di stabilità lo rendono adatto alla coabitazione fisica e sessuale, nonché all’accoglienza della vita.

L’impegno definitivo e la responsabilità reciproca del matrimonio non sono paragonabili alla semplice unione “libera”, anche quando c’è un implicito intento matrimoniale. Scrive acutamente Joan Carreras: “sebbene possano esistere ‘unioni di fatto provvisoriamente definitive’, poiché sopravvivono a venti e marosi, superando mille difficoltà, non ci troviamo in presenza di veri matrimoni […]. Il matrimonio è una realtà giuridica e dove non c’è impegno non c’è unione matrimoniale” (J. Carreras, Le nozze. Festa, sessualità e diritto, Edizioni Ares, Milano 2001, p. 106).

Carreras continua entrando nel merito del consenso alle cure mediche: “si pensi al caso in cui uno dei componenti della coppia non sposata debba affrontare un intervento chirurgico, per la cui esecuzione è necessario il consenso di un familiare responsabile. Ebbene, il consenso del compagno o della compagna, per quanto molto uniti sentimentalmente, non serve in alcun modo al chirurgo. […] Al contrario, la cosa è ben diversa se si tratta del coniuge. Il medico può procedere subito all’operazione, perché tra coniugi ognuno si assume la responsabilità di rispondere per l’altro; responsabilità che discende dal fatto che entrambi si sono donati reciprocamente. […] È la profonda relazione interpersonale sorta dal consenso matrimoniale che legittima i coniugi a compiere un atto di responsabilità così grave come l’autorizzazione a un intervento chirurgico. Ed è pure l’assenza di questa dimensione ‘oblativa’, giuridica, a connotare le unioni di fatto” (ibid. , pp. 106-107).

La Chiesa Cattolica, in definitiva, sostiene e promuove il valore dell’unione coniugale di contro al diffondersi delle unioni di fatto perché comprende che questo è il bene per l’uomo e per la società anche a livello naturale, ed è autorizzata a farlo lecitamente perché è chiamata per vocazione ad esprimersi autorevolmente (e infallibilmente) in tema di fede e di morale.

Anche di recente, nel messaggi
o inviato il 28 gennaio 2004 ai partecipanti al Convegno Internazionale su “Regolazione naturale della fertilità e cultura della vita” (Roma, 30-31 gennaio 2004), il papa ha ribadito che “solo nel contesto dell’amore reciproco, totale e senza riserve, dei coniugi, può essere vissuto in tutta la sua dignità l’evento della generazione al quale è legato il futuro stesso dell’umanità” (http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/2004/january/documents/hf_jp-ii_spe_20040130_conv-fertility_it.html).

La strumentalità della polemica contro la posizione morale della Chiesa emerge in modo ancor più lampante in epoca di divorzio legalizzato. La facilità con cui una famiglia può oggi essere distrutta sotto la tutela giuridica dello Stato fa cadere la maschera che cela il vero volto dell’insofferenza verso il magistero della Chiesa. Se infatti è così semplice “sciogliere” una famiglia, se si rifiuta l’effimera promessa a cui è ridotto oggi l’istituto del matrimonio, perché se ne chiedono poi le garanzie e i privilegi da sempre riconosciuti dalle pubbliche autorità?

Se le verità naturali, autentici “dati di fatto” inscritti nella natura umana, non sono più facilmente visibili, è anche perché il mondo contemporaneo è stretto da numerose e profonde contraddizioni interne, che lo portano a continue oscillazioni nei giudizi morali sulle questioni bioetiche. La famiglia e il valore della vita sembrano essere temi particolarmente esposti a tali incongruenze, che assumono ormai l’aspetto di una profonda crisi della famiglia stessa.

In effetti, non è praticamente possibile leggere un testo o assistere a un dibattito sulle “crisi” del nostro tempo senza che si faccia prima o poi riferimento alla crisi dell’istituto famigliare, alla mancanza di valori e al declino della figura paterna, come cause principali dei problemi che travagliano la nostra società. Eppure, dopo aver individuato correttamente il luogo d’origine di tali crisi, cioè la famiglia, ci si rifiuta di riconoscere ciò che per millenni gli uomini hanno avuto ben chiaro: la famiglia preesiste allo stato e (a maggior ragione) alle ideologie, e in quanto base della società deve essere protetta per offrire a quanti più uomini possibile l’ambiente accogliente ove imparare l’amore e l’ordine necessari alla convivenza civile.

[I lettori sono invitati a porre domande sui differenti temi di bioetica scrivendo all’indirizzo: bioetica@zenit.org. La dottoressa Navarini risponderà personalmente in forma pubblica e privata ai temi che verranno sollevati. Si prega di indicare il nome, le iniziali del cognome e la città di provenienza]

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ZENIT Staff

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