BOLOGNA, lunedì 3 maggio 2004 (ZENIT.org).- L’Arcivescovo di Bologna , in un intervento pronunciato lo scorso giovedì, nell’affermare che le attività sportive hanno un senso se accrescono l’abilità spirituale, ha esaltato il ruolo decisivo degli educatori, il cui insegnamento deve aderire alla realtà oggettiva rifuggendo dal relativismo che disintegra la responsabilità e la libertà.

Così monsignor Carlo Caffarra si è rivolto il 29 di aprile ai partecipanti ad un convegno organizzato in città dal Centro Sportivo Italiano (CSI) sul tema “A scuola di valori in Parrocchia”.

Le sue parole sono state così forti, da suscitare un acceso dibattito su alcuni quotidiani nazionali.

“Esiste un'abilità fisica; esiste un'«abilità» spirituale – ha spiegato Caffarra –. Ciò che pone la persona nella pienezza della sua dignità non è la prima, ma la seconda. La prima è al servizio della seconda”.

Detto in altri termini, l'attività sportiva non può essere distorta dal suo scopo ultimo, la formazione della persona, da qui l’aforisma tratto dalla X satira di Giovenale “orandum est ut sit mens sana in corpore sano” (“prega di avere mente sana in un corpo sano”, ndr).

“Se lo sport viene distaccato da una visione adeguata della persona umana, dominio dello spirito sulle membra, è esposto ad ogni degradazione”, ha sottolineato l’Arcivescovo.

Caffarra ha chiarito che: “E' questa la ragione vera di una presenza di cristiani nel mondo dello sport: prendersi cura della persona umana, così che essa non venga strumentalizzata allo sport”.

La parte dell’intervento dell’Arcivescovo che più ha acceso il dibattito è stata quella relativa alla cultura dominante, in cui egli afferma che una persona è introdotta nella realtà quando conosce la verità e il valore della realtà medesima: quando ne sa dare perciò un'interpretazione sensata.

“Ora la cultura attuale (la cosiddetta post-modernità) – ha commentato monsignor Caffarra – è dominata dalla negazione di quel rapporto originario: non esiste una realtà da interpretare. Esistono solo delle interpretazioni della realtà, sulle quali è impossibile pronunciare un giudizio veritativo, dal momento che esse non si riferiscono a nessun significato obiettivo”.

Questo modo di pensare ha cancellato la ricerca della verità, perchè se “la realtà è semplicemente questo insieme, questo gioco di interpretazioni” ha detto l’Arcivescovo “è semplicemente privo di senso porsi la domanda della verità”.

I danni di questo modo di pensare sono evidenti. Caffarra ha fatto l’esempio dell'istituzione matrimoniale: “Se l'essere-uomo / l'essere-donna non possiede un senso obiettivo, ma ha quel senso che ciascuno gli attribuisce, non si vede perché debba chiamarsi matrimonio solo l'unione fra l'uomo e la donna” e così anche “la sessualità ha il significato che tu decidi di attribuirle”.

“Questa dissoluzione del reale nel gioco senza fine delle interpretazioni ha avuto un effetto devastante nello spirito: ha estenuato la passione per l'uso della ragione”.

Il relativismo, ha continuato l’Arcivescovo, “è una malattia mortale dello spirito” che ha ingenerato “lo smarrimento del senso della libertà” e indotto la “tristezza del cuore”.

Secondo Caffarra il danno maggiore del relativismo così inteso è l’aver vanificato “il reale dell'esistenza e quindi della libertà”. “Essere liberi è ormai sinonimo di assenza di impegno”, ha rilevato l’Arcivescovo di Bologna.

Ed è impensabile educare una comunità umana senza responsabilità, senza impegno verso gli altri. “L'incontro con l'altro è un'alleanza originaria” ha detto Caffarra, per questo “l'unica proposta educativa ragionevole è quella che consiste nell'introdurre la persona umana nella realtà, realtà che è stupore, meraviglia e pienezza di essere”.