Quando i fascisti irruppero nell’Abbazia Ostiense alla ricerca di ebrei

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ROMA, giovedì, 7 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito un articolo a firma di dom Edmund Power, Abate di San Paolo fuori le Mura, apparso sul numero di gennaio di Paulus, dedicato al tema “Paolo l’orante” e contenente un dossier centrale sulla Lettera a Tito.

* * *

Durante la Seconda guerra mondiale ci fu un incidente legale significativo per le sue implicazioni riguardo ai rapporti fra i monaci di San Paolo fuori le Mura e gli ebrei. Tanto da diventare una causa celebre. Cito il primo, conciso avviso che ne diede L’Osservatore Romano del 7-8 febbraio 1944: «Nella notte tra il tre e il quattro febbraio guardie armate, qualificate come reparti della polizia repubblicana, al comando del dottor Pietro Caruso – del quale i giornali italiani pubblicarono alcuni giorni fa la nomina a Questore di Roma – penetrarono di viva forza negli edifici della Patriarcale Basilica di San Paolo, violando i diritti di extraterritorialità garantiti da solenne Trattato». La Santa Sede, naturalmente, elevò formale protesta.

La testimonianze dell’irruzione

Ciò che avvenne è raccontato nella relazione scritta a mano dall’abate Ildebrando Vannucci e depositata in Vaticano il 6 febbraio. Eccone alcuni passaggi: «Verso mezzanotte e mezzo venni svegliato da ripetuti colpi alla porta della camera e compresi subito che qualcosa di grave succedeva in monastero. Mi vestii in fretta e, uscito sul corridoio, un converso mi avverte che erano entrati vari poliziotti per arrestare il generale Monti, zio di un nostro monaco, D. Bernardo Mollari, che da qualche mese dimorava in San Paolo […] Un gruppo di agenti aveva scavalcato il muro di cinta dell’orto, penetrando per la scala delle soffitte della Basilica, in un corridoio del monastero, sfondando una porta e minacciando con le rivoltelle in pugno i fratelli conversi che dormivano nelle loro celle […] Intanto era incominciata l’invasione del monastero e molti poliziotti bussavano violentemente alle celle dei monaci ordinando di uscire. Sono state fatte perquisizioni in varie celle […] sia abitate da monaci […], sia specialmente abitate da ospiti […] Una delle prime accuse che c’è stata fatta è stata quella di aver trovato manifesti e giornali comunisti […] nelle celle dei monaci e degli ospiti. I monaci e gli ospiti venivano costretti ad andare nei saloni della portineria. Nei saloni fu fatto l’interrogatorio degli ospiti […], i monaci furono lasciati nel primo salone e non interrogati. Mentre si faceva questo interrogatorio, continuavano queste perquisizioni in monastero […] devastando ed esportando oggetti, cibarie e biancheria. Sono poi entrati, sempre con violenza, nel salone della parrocchia, dove erano alloggiate circa una cinquantina di persone e, sparando alcuni colpi di rivoltella, hanno ingiunto con insulti e minacce di seguirli nelle sale del parlatorio […] Questi rifugiati furono schiaffeggiati, colpiti da staffilate e da calci in modo che molti sanguinavano […] Riassumendo: la polizia entrò con violenza e con inganno senza presentare nessun mandato che, del resto, non potevano avere. Furono aggrediti monaci e conversi a mano armata, mentre ancora dormivano nelle loro celle; anche i monaci furono fatti scendere in parlatorio come requisiti, gli ospiti furono trattati con violenza, con insulti e con minacce […] L’Abate, mentre sembrava che volessero usargli qualche riguardo, venne apostrofato con insulti. Le accuse non hanno alcun fondamento […] L’accusa di banda comunista non è appoggiata da nessuna prova. Gli ospiti erano o parenti di monaci o sfollati o ebrei o persone della parrocchia che si ritenevano più sicuri in monastero». È suggestivo come l’abate Vannucci scriva di sfuggita «o ebrei», quasi che tale presenza fosse normale per l’ospitalità monastica, come motiva subito dopo: «che si ritenevano più sicuri in monastero». Nelle loro deposizioni, altri monaci suggeriscono che fra i poliziotti italiani ci fosse almeno un tedesco: «Faccio qui notare che credo di non sbagliarmi sulla provenienza tedesca

di tale individuo. Ho avuto molti amici tedeschi, sono poi professore di musica e ho studiato con particolare interesse la fonetica del discorso» (D. Cesario Amato osb). Un’altra deposizione, da parte del parroco della vicina parrocchia del Buon Pastore, che venne per caso all’Abbazia presto la mattina e fu ritenuto per un periodo, scrive: «Un certo Cav. Cocco […] a spinte mi cacciò verso l’uscio del corridoio dicendo: “Voi preti e le vostre case siete un covo di ebrei e di traditori da fare a pezzi!”» (Sac. Pierluigi Occelli, 4 febbraio 1944).

Il dibattito sulla stampa nazionale

La presenza di ebrei viene ripresa parecchie volte dalla stampa. La versione ufficiale dell’evento viene raccontata in un articolo comparso su La Tribuna dell’8 febbraio: «La polizia repubblicana della Capitale ha compiuto un’importante operazione […] circondato l’edificio, gli agenti […] sono penetrati dentro e vi hanno trovato nascosti il generale dell’Aviazione Monti, quattro altri ufficiali, nove ebrei, due funzionari della P.S. e quarantotto giovani renitenti alla leva. Tutti sono tratti in arresto». Un articolo del Piccolo (9-10 febbraio) c’informa: «L’art. 22 del Trattato dice infatti: “La Santa Sede consegnerà allo Stato italiano le persone che si fossero rifugiate nella Città del Vaticano, imputate di atti commessi nel territorio italiano, che siano ritenuti delittuosi dalle leggi di ambedue gli Stati”». Secondo l’autore, poiché «ora le leggi italiane dichiarano gli ebrei “nemici della Patria”», la permanenza di ebrei a San Paolo sarebbe contraria al Trattato Lateranense… il quale, invece, specificava attentamente che gli “atti delittuosi” devono essere ritenuti tali dalle leggi «di ambedue gli Stati». E lo Stato della Città del Vaticano non riteneva «atto delittuoso» l’essere ebreo. Il solo Giornale d’Italia (10 febbraio) distingue gli ebrei dagli altri cosiddetti “criminali”: «Nel collegio di San Paolo non sono stati trovati, infatti, dei rifugiati politici e, a parte un gruppo di ebrei, dei “perseguitati”». Se non altro, si riconosce che gli ebrei sono “perseguitati”. Essi sono «Fiorentino Carlo, Soliani Umberto fu Isacco, nato a Lugano, domiciliato a Gardone e Arturo Spagnoletto Leonardo fu Mosè, Spagnoletto Aurelio di Leonardo, Spagnoletto Leonardo di Mario». A questi nomi, un po’ confusi, seguono quelli di tre minorenni: Mauro Alfredo, Gasparrini Franco e Pulzoni Mauro. Se anche costoro fossero stati ebrei, avremmo ricostruito il gruppo cui accennava La Tribuna. L’ultimo articolo da segnalare è quello del Popolo (20 febbraio), che afferma l’integrità delle persone arrestate a San Paolo: «Non si tratta piuttosto di perseguitati dall’odio di parte? Infatti, gli ufficiali accusati di diserzione sono invece dei patrioti […] e gli ebrei? Sono anch’essi perseguitati in ragione delle leggi razziste contro le quali la Santa Sede ha sempre protestato con tanto vigore». Gli avvenimenti di quella notte dimostrano che l’Abbazia di San Paolo era tra gli istituti ecclesiastici di Roma che offrirono rifugio ai perseguitati – ebrei compresi – durante la guerra. E per finire, una curiosità: sui camminamenti superiori intorno alla Basilica – un’intercapedine muraria inaccessibile al pubblico – sono tutt’oggi visibili alcuni graffiti a matita, scritti in ebraico. Sarebbe stato un luogo perfetto per fornire un nascondiglio. Possiamo, dunque, concludere che gli ebrei furono accolti più volte a San Paolo durante il corso della guerra.

Edmund Power

Abate di San Paolo fuori le Mura

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ZENIT Staff

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