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Cominciano a lavorare gli otto Cardinali chiamati dal Papa a tracciare la riforma della Curia

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Churchill diceva che la democrazia è il peggior sistema di governo, con l’eccezione di tutti gli altri. Con questo, lo statista inglese intendeva dire che l’equilibrio di poteri proprio dello Stato di diritto determina inevitabilmente una farraginosità ed una lentezza nel processo decisionale. Tuttavia, quello che può sembrare un difetto, costituisce un pregio insostituibile, in quanto pone al riparo i cittadini dalle prevaricazioni, e le stesse istituzioni da una reciproca sopraffazione.

L’attuale Papa, appena eletto, non si è proposto di trasformare la Chiesa in una democrazia: un simile obiettivo non sarebbe infatti auspicabile, e risulterebbe inoltre comunque impossibile da raggiungere. Non sarebbe auspicabile, perché la struttura gerarchica della Chiesa è concepita al fine di preservare le verità fondamentali di cui essa è custode, riguardanti il destino ultraterreno dell’uomo, e non il benessere materiale. 

Uno Stato è tanto più democratico quanto meno è ideologico, quanto meno cioè conforma l’azione dei propri organi con un postulato prestabilito e indiscutibile: la sua azione legislativa ed amministrativa deve essere empirica, pragmatica, diretta ad escogitare soluzioni valide per una determinata contingenza storica e sociale.

Anche la Chiesa può adattarsi alle mutate condizioni del mondo, ma vi è in essa tanto una ispirazione divina, che è comunque e sempre indiscutibile, quanto una finalità avulsa dalla realtà materiale. Ciò detto, proprio in virtù della propria missione spirituale, la Chiesa è giunta a comprendere in sé genti, culture, condizioni sociali le più diverse tra loro: questo esito era connaturato nella sua stessa missione, consistente nel portare a tutti gli uomini indistintamente un messaggio di salvezza.

Pur condividendolo, pur essendo accomunati nella fede, gli uomini rimangono però diversi: diversi per cultura, ed ancor più divisi dalle contraddizioni proprie del mondo attuale.

Il problema consiste nel dare alla Chiesa un governo nelle cui scelte, nella cui ispirazione, tutti i fedeli cattolici possano riconoscersi. Ed in cui – nella prospettiva dell’unità dei Cristiani – possano riconoscersi anche i componenti delle altre Chiese, costituendo perfino un terreno di incontro e di collaborazione con le altre fedi e con tutti gli uomini di buona volontà.

Finora, il governo della Chiesa universale ha teso – non poteva essere diversamente, ed è miracoloso il fatto di esservi riuscita – a ricercare quello che si può definire un minimo comune denominatore: una scelta, questa, resa necessaria dalla necessità di preservare l’unità.

Pensiamo alle grandi situazioni di conflitto vissute nel corso del Novecento, ed in particolare a quella propria della prima guerra mondiale.

In quel momento, si scontravano due principi inconciliabili sul piano umano, tali che uno dei due doveva necessariamente prevalere e l’altro perire: il principio di legittimità, posto a base degli Imperi, ed il principio di autodeterminazione, fondamento degli Stati nazionali.

La Chiesa, tenuto conto di tutte le enunciazioni contenute nel Magistero papale dell’Ottocento, avrebbe dovuto schierarsi esplicitamente in favore della preservazione del principio di legittimità.

Questo, però, non avvenne: non solo e non tanto perché la Santa Sede – quale soggetto di Diritto Internazionale – doveva e voleva rimanere neutrale, ma anche perché i Cattolici, in quanto cittadini, erano nella loro immensa maggioranza favorevoli al principio nazionale: il che comportava la loro lealtà verso i rispettivi Stati.

Tutte le vicende storiche successive hanno costituito delle conseguenze delle scelte compiute allora: il carattere ideologico e totalitario assunto successivamente da molti Stati ha prodotto certamente i disastri del Ventesimo Secolo, ma occorreva distinguere il grano dal loglio; il grano era il rafforzamento degli Stati nazionali, con l’inserimento delle masse popolari nelle loro vicende, mentre il loglio era costituito dalla discriminazione dei dissidenti, che spesso si traduceva in una politica antireligiosa, in una persecuzione della Chiesa, vista come un soggetto irriducibile alle ideologie ufficiali.

Se guardiamo bene, la correzione di questo grande errore storico ha abbracciato l’opera di tutti i pontificati che si sono succeduti a partire da Pio XII.

In questa grande opera, le riforme conciliari hanno costituito un momento determinante: poteva la Chiesa aiutare i popoli nella rivendicazione di tutte le libertà, quelle che un tempo si dicevano le “libertà borghesi” ed ora si qualificano come universali, quelle di pensiero, di coscienza, di culto, di associazione, di espressione e via dicendo se essa per prima non le accettava?

Senza il Concilio, Giovanni Paolo II non avrebbe potuto svolgere un ruolo determinante nella caduta del totalitarismo comunista.Oggi, dopo che i fatti storici hanno certificato di come la Chiesa non rivendica privilegi per sé – la fine dei regimi comunisti non ha portato ad instaurare nessuna teocrazia, nessun regime confessionale – rimane da risolvere un altro problema: quello che consiste nell’inserire nel governo ecclesiastico l’espressione, vorremmo dire – con un termine improprio, mutuato dal linguaggio del Diritto Pubblico – la rappresentanza delle culture diverse da quella europea, o per meglio dire europea occidentale.

Sta per compiersi, nella Chiesa di Papa Francesco, un ciclo storico durato secoli, iniziato con la colonizzazione da parte dell’Europa degli altri Continenti. Questo processo ha conosciuto tre momenti: dapprima l’inculturazione del Cristianesimo nelle realtà locali, la ricerca di quelle espressioni e di quegli argomenti che lo rendessero comprensibile per le diverse identità, poi la costituzione di un clero e di una gerarchia indigeni – questa fase ha coinciso nel tempo con la decolonizzazione – ed infine il superamento della stessa inculturazione.

Qui arriviamo a tempi molto recenti, quando si è sostituita l’idea di un innesto della verità rivelata su di una identità preesistente per accentuare invece il concetto della convergenza di tutte le culture verso la scoperta della Rivelazione. Nell’un caso si privilegiava l’apporto di un insegnamento proveniente dall’Europa, cioè di un insegnamento di origine straniera; e si suggeriva nello stesso tempo l’idea di un innesto, cioè di una operazione compiuta artificialmente dagli uomini, destinata comunque a cambiare in qualche misura la loro identità.

Nell’altro caso l’adesione di nuovi popoli alle verità cristiane era vista come una adesione spontanea, che prescindeva dal rapporto tra il docente europeo ed il discente extraeuropeo.

Ora, però, alla fine di questo lungo processo, siamo davanti ad un risultato costituito da un meticciato culturale.

Può il cristianesimo persistere in una visione eurocentrica, sia pure non più in termini, per così dire, “politici” – molti sono infatti i prelati di provenienza non europea presenti nella Curia Romana – ma certamente ancora in termini per l’appunto culturali? Questo non è più possibile, perché i Paesi extraeuropei stanno avanzando una rivendicazione giustizialista nei rapporti economici internazionali che risulta simile – per la sua portata rivoluzionaria – a quella dell’autodeterminazione dei popoli nel tempo della prima guerra mondiale.

Questa nuova rivendicazione trova nella Chiesa un terreno di confronto, e dunque la Chiesa è chiamata a schierarsi. Con la scelta dell’attuale Papa, essa lo ha già fatto. E’ dunque indubbio che certe tensioni interne siano destinate ad accentuarsi. Il fatto stesso che lo scontro si focalizzi sulla liturgia è molto significativo: il latino era infatti la lingua di un eurocentrismo ammantato di egemonia culturale; ed il suo sostenitore, Monsignor Lefèbvre, si era dimesso da Vescovo di Dakar perché non accettava l’Indipendenza dei Paesi africani.

Rimane il problema della collegialità, e della sinodalità nella Chiesa: collegialità significa condiv
isione del Governo tra il Papa ed i Vescovi, quali successori degli Apostoli.

Il problema non deve necessariamente risolversi con una ridefinizione dottrinale del Ministero petrino: ciò che conta è piuttosto il modo in cui questo ministero viene esercitato.

E’ significativo come il Papa da un lato ribadisca che il ruolo degli otto Cardinali è consultivo, e non deliberante, ma dall’altro attenda la loro pronunzia prima di porre mano alla riforma della Curia.

Nel “modus procedendi” scelto da Bergoglio, possiamo dire che si uniscano i pregi del parlamentarismo, essendo assicurato il criterio della rappresentatività, con quelli del governo tradizionale della Chiesa, che grazie al centralismo consente la rapidità nelle decisioni.

La sinodalità, a sua volta, deve essere intesa come la direzione che la Chiesa intraprende nel suo cammino.

Sia la collegialità, sia la sinodalità non possono comunque prescindere da un dato storico: la maggioranza dei Cattolici, anzi la maggioranza dei Cristiani, è composta oggi di extraeuropei. E’ singolare come vi possa essere chi se ne duole: non è forse questo il più grande esito della missione “de Propaganda Fide” affidata alla Chiesa dal suo Divino Fondatore?

Nessun governo della comunità dei credenti, quale che sia la definizione del Ministero petrino, e quale che sia il suo concreto esercizio, può prescindere da questo dato. Non si tratta di celebrare delle elezioni per constatare che la maggioranza dei fedeli è cambiata; e comunque una elezione c’è già stata nel Conclave, compiuta però dallo Spirito Santo. Il quale ispira in egual misura tutti i credenti. Si tratta dunque di saper percepire dove soffia lo Spirito.

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Alfonso Maria Bruno

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