Il Gruppo Rahab, un'opportunità per le donne di strada in Camerun

Parla Annie Josse, dell’Istituzione Teresiana, coordinatrice del progetto

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di Nieves San Martín

YAOUNDÉ, lunedì, 23 marzo 2009 (ZENIT.org).- In alcune zone di Yaoundé, la capitale del Camerun, è possibile vedere donne che per motivi molto diversi, quasi sempre collegati al mantenimento dei figli, devono prostituirsi in strada per pochi spiccioli. Da 12 anni, il Gruppo Rahab offre loro uno spazio per poter parlare con altre donne della propria situazione e aprire nuovi orizzonti per un reinserimento nella società.

Annie Josse, francese, docente di Bibbia e Lingua Francese all’Istituto Mukasa, membro dell’Istituzione Teresiana ha spiega a ZENIT le ragioni alla base di questo progetto, i suoi obiettivi e il nuovo sogno in via di realizzazione: una cooperativa in cui queste donne possano esercitare le professioni che hanno imparato con l’aiuto del Gruppo.

Perché è stato fondato il Gruppo Rahab?

Prof.ssa Annie Josse: Nel 1997 alcuni missionari cattolici che lavorano con i bambini di strada vedevano queste donne che attendevano i clienti. Si sono chiesti se ci sarebbe stato qualcosa nei progetti dell’Arcivescovado o in qualche Congregazione per assisterle. Hanno fatto delle ricerche e si sono resi conto che non c’era niente, e per questo hanno iniziato a pensare a cosa potevano fare. Così è nata l’idea del Gruppo Rahab.

Una sera, mentre tornavano a casa, si sono fermati a parlare con queste donne dicendo che erano missionari cattolici. Non sapevano ancora cosa si sarebbe fatto, ma erano convinti che fosse un mondo che bisognava assistere. Alcune hanno risposto che volevano parlare ma non per strada, e hanno chiesto loro di trovare un luogo per riunirsi. In questo modo è iniziato il gruppo con quattro donne, una delle quali è morta alcuni anni fa di Aids.

All’inizio c’era una riunione settimanale in cui le donne parlavano molto di ciò che vivevano in strada, e il problema principale era la violenza da parte della polizia, che ora si è placata. Facevano retate, le portavano al commissariato, toglievano loro tutto ciò che avevano, a volte le denudavano e le costringevano ad avere rapporti sessuali con loro nel cortile del commissariato davanti a tutti, le portavano nell’hinterland e le lasciavano lì senza vestiti, senza denaro e picchiate. E’ stato un periodo molto difficile.

Si notava che avevano bisogno di parlare perché nelle loro case nessuno sapeva quello che facevano. Non avevano alcuno spazio in cui esprimersi. Anche se non era pensato in questo modo, era quasi una terapia di gruppo.

Qual è l’origine di questo nome?

Prof.ssa Annie Josse: Il Gruppo si chiama Rahab dal nome della prostituta di Gerico che aiutò le spie di Giosuè a entrare nella città. Abbiamo scelto questo nome per l’aspetto simbolico: Rahab ha accolto gli stranieri. Il primo invito che abbiamo ricevuto in Camerun, essendo noi straniere, è stato a casa di queste donne.

Cosa avete voluto offrire in questo modo?

Prof.ssa Annie Josse: L’idea era in primo luogo aiutarle a recuperare la loro dignità di donne, a rendersi conto che valgono molto di più di ciò che fanno e, a partire da questa scoperta, pensare ad altri modi per guadagnarsi da vivere perché sono di un livello sociale piuttosto basso. Non hanno avuto la possibilità di studiare, provengono da famiglie modeste e quasi tutte sono in strada perché hanno avuto dei figli quando erano molto giovani, adolescenti, e non avendo mezzi per nutrirli non hanno visto alternativa alla prostituzione. La maggior parte di loro prova grande vergogna per ciò che fa.

Ciò che favorisce il fatto di entrare in contatto con loro e aiutarle a uscire dalla prostituzione è il fatto che non sono organizzate in reti, né ci sono organizzazioni che le sfruttano. Questo facilita l’uscita dal giro se lo vogliono davvero e non lo dicono solo per far piacere al gruppo.

Quelle che hanno voluto abbandonare la prostituzione e guadagnarsi la vita in un altro modo hanno pensato in primo luogo al commercio, a vendere frutta o pesce per strada. Non avevamo esperienza in questo settore e venivamo da un’altra realtà, quindi abbiamo finanziato alcuni progetti ma dopo pochi mesi la cosa non andava avanti. Vivono in una situazione così precaria che quando hanno una necessità spendono tutto.

Per questo abbiamo deciso di finanziare solo progetti di formazione professionale. Da sette o otto anni, ogni anno alcune donne studiano per diventare parrucchiere, decoratrici, sarte, informatiche o occuparsi nell’industria alberghiera. Le aiutiamo per la durata degli studi o della pratica, ma il grande problema è trovare un lavoro. Alcune lavorano già, ma sono molto poche.

Avete pensato a qualche altra soluzione a questa mancanza di opportunità lavorative?

Prof.ssa Annie Josse: Dall’anno scorso stiamo pensando a creare una cooperativa perché le donne che si sono preparate professionalmente possano lavorare insieme. Per questo, abbiamo appena affittato una casa a Yaoundé e speriamo di poter iniziare presto, ad aprile.

Il Gruppo Rahab conta sul sostegno finanziario di due ONG, la spagnola “Caminos Solidarios” e la tedesca “Solidaritat und Kultur”, e sulle donazioni di amici. I fondi in realtà sono molto scarsi, per questo ogni anno possiamo aiutare al massimo quattro progetti di formazione professionale, ma non ci è mai mancato il denaro.

Quante donne hanno beneficiato finora di questo progetto?

Prof.ssa Annie Josse: Da quando abbiamo iniziato circa sessanta, ma alcune dopo un anno o due smettono di venire al gruppo. O si rendono conto che non è il tipo di realtà a cui sono interessate, o escono dalla prostituzione e preferiscono non mantenere alcun contatto con il loro vecchio ambiente. Di altre non sappiamo il motivo, forse si trasferiscono in un altro luogo, o muoiono di Aids.

Nei 12 anni di lavoro con loro sono già morte 11 donne del gruppo, tutte tranne una per Aids. E’ un gruppo sociale ad alto rischio, in cui una percentuale molto alta è malata o portatrice del virus. Alcune sono morte quando avevano completato gli studi e speravano di cambiare vita.

Come si affronta il tema della salute con queste donne?

Prof.ssa Annie Josse: Abbiamo una convenzione con l’ambulatorio, che le assiste gratuitamente con un biglietto che diamo loro, e il Gruppo Rahab poi paga le spese. Questo fa parte dell’aiuto materiale. Sono assistite sia le donne che i loro figli. Cerchiamo di accompagnare quelle che sono malate fino a che muoiono. Ora nel gruppo ci sono quattro donne sottoposte a cure, sono malate da tre o quattro anni e al momento sembra che stiano bene.

E i bambini?

Prof.ssa Annie Josse: Con il trattamento madre-figlio, una medicina che si dà al bambino 24 ore dopo la nascita, c’è una percentuale molto alta di possibilità che il bambino non venga contagiato. La maggior parte delle donne del gruppo è consapevole del trattamento, ma due anni fa ne è morta una che non aveva voluto dire di essere malata, e il trattamento è stato applicato al bambino solo una settimana dopo. Crediamo che non abbia l’Aids, è stato effettuato un controllo due mesi fa, ma è sempre malato per cui pensiamo che un giorno si conclamerà la malattia. I bambini in genere vivono con le madri e vengono lasciati soli quando queste escono a procurarsi il denaro di notte, con tutti i pericoli che questo comporta. Altri vengono lasciati con qualche familiare.

Chi c’è dietro a questo progetto?

Prof.ssa Annie Josse: Ci siamo noi dell’Istituzione Teresiana. Ora siamo in quattro più una persona che collaborerà per qualche mese. Quando abbiamo iniziato, oltre a noi, c’erano un oblato, un saveriano, e una religiosa che hanno trascorso del tempo con noi, ma poi per vari motivi hanno dovuto andarsene.

Possiamo parlare del centro in cui si riuniscono e della cooperativa?

Prof.ssa Annie Josse: Per le riunioni abbiamo cercato un posto che fosse centrale perché ogni donna vive in un quartiere diverso. Volevamo che fosse al
la stessa distanza per tutte e che il costo del trasporto fosse più o meno simile. Abbiamo chiesto un locale ai salesiani e ci lasciano una sala tutte le settimane. Ci vediamo lì per un paio d’ore per parlare, dare notizie su ciascuna e trattare qualche tema che può riguardare la salute – invitando un’infermiera o un medico – o dibattere su altri argomenti utili dal punto di vista sociale. Parliamo soprattutto dei problemi di queste donne. E’ una riunione informale, perché abbiamo notato fin dall’inizio che ciò di cui hanno bisogno è uno spazio per poter parlare liberamente, qualcosa che non hanno a casa propria.

Il primo contatto avviene in strada. Andiamo dove si concentrano ma non più di due o tre volte, perché quando ci conoscono si vergognano a farsi vedere lì per come sono vestite per attirare i clienti.

Quando arriva una donna nuova, in poche settimane si nota il cambiamento. Il primo giorno si siede fuori dal cerchio, vicino alla porta, a testa bassa, senza sorridere, senza parlare. Dopo poche settimane si integra nel cerchio, parla, si nota un cambiamento fisico.

Quando un certo numero di donna ha già avuto un’opportunità di formazione cerchiamo di contattarne altre. Nessuno è costretto a uscire dal gruppo, ma vogliamo che altre abbiano l’opportunità di fare questa esperienza.

Quanto alla cooperativa, visto che hanno studiato cose diverse inizieremo con l’offrire una casa in cui mangiare e un locale per taglio e confezione. Abbiamo affittato una casa con varie stanze perché si possano conciliare varie attività, aiutandosi a vicenda. Ciò che è molto chiaro per noi è che non si tratta del fatto che ciascuna svolga il suo compito e guadagni il suo stipendio, ma vogliamo che tutte si aiutino per quanto possibile. Ad esempio, la sarta, se in un momento non ha da fare, può aiutare quelle che stanno facendo da mangiare, e le altre, quando la sarta ha molto lavoro, possono stirare i vestiti.

Vogliamo far sì che lavorino in modo cooperativo e non individualista, ed è una cosa molto difficile perché, a causa della loro esperienza, in genere non sono amiche. In strada sono in competizione per cercare clienti e tra loro c’è gelosia.

Quando è iniziato il gruppo era molto difficile, perché quando si aiutava una donna le altre erano gelose. Con il passare degli anni siamo riusciti a ottenere qualcosa, ma è una delle difficoltà che dobbiamo affrontare. Quando succede qualcosa di positivo non lo vogliono raccontare per paura. Bisogna tener conto del fatto che qui è ancora molto presente la stregoneria. Una di loro ha trovato lavoro poco fa e non ha voluto che le altre lo sapessero. E’ un peccato perché si vede che non hanno fiducia le une nelle altre.

Tra le speranze di queste donne, c’è anche quella di formare una famiglia?

Prof.ssa Annie Josse: E’ il sogno di tutte, e anche se sembra paradossale alcune sono in strada per cercare di trovare marito. Leggono molti romanzi rosa in cui si trova un marito quasi per incanto. L’ultimo sogno in ordine di arrivo è trovare un marito europeo su Internet. Qualcuna ci è riuscita e ora è l’ideale di tutte.

Alcune hanno già un progetto abbastanza stabile con un uomo per formare una famiglia, ma allo stesso tempo continuano a stare in strada. Lo fanno per paura che la relazione fallisca, non per denaro. In realtà in strada guadagnano molto poco, non sono soldi facili. Con ogni cliente guadagnano circa un euro.

Una di loro, che è uscita tempo fa dalla prostituzione e lavora come parrucchiera ed estetista, è venuta a dirci che la settimana precedente era morta sua sorella di 14 anni e che il padre non voleva fare niente per pagare il funerale. Lei ha pensato che doveva cercare il denaro, almeno per pagare la bara. Ha detto: Dio deve aiutarmi a trovare il denaro, e racconta che Dio l’ha aiutata perché in due giorni ha trovato i soldi, ma prostituendosi… Quando ti raccontano cose del genere ti viene da piangere.

[Traduzione dallo spagnolo di Roberta Sciamplicotti]

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ZENIT Staff

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