La sofferenza occasione di crescita

Intervento del Convegno “La pienezza della gioia nella riscoperta del senso del dolore” nel 50° anniversario della nascita al cielo del Venerabile Giacomo Gaglione

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di Eugenio Fizzotti

ROMA, venerdì, 25 maggio 2012 (ZENIT.org) – In occasione del convegno “La pienezza della gioia nella riscoperta del senso del dolore”, svoltosi nella Biblioteca del Seminario Vescovile di Caserta il 25 maggio 2012 in occasione del 50° anniversario della nascita al cielo del Venerabile Giacomo Gaglione sono stato invitato a tenere il seguente intervento.

Parlando della sofferenza, si è soliti pensare alla sofferenza fisica, quello che si può lenire con interventi di tipo farmacologico o comunque di tipo medico. Ma non si può ignorare che la sofferenza non è mai soltanto fisica, soprattutto quando si tratta di qualcosa di serio o grave. In questa prospettiva si possono distinguere diverse forme di sofferenza:

– La sofferenza fisica può presentarsi con varie modalità, secondo le diverse parti del corpo o i diversi centri nervosi interessati. Così ad esempio anche nausea, dispnea e astenia sono forme di dolore fisico.

– La sofferenza psichica è causata dalla reazione della psiche alla sofferenza fisica e alla malattia e in questa categoria rientrano anche la paura, l’ansia e la depressione.

– La sofferenza affettiva è causata dalla situazione di isolamento e di solitudine in cui viene a trovarsi il malato grave ricoverato in ospedale.

– La sofferenza morale o spirituale può nascere dall’impossibilità di realizzare progetti di vita che la persona desiderava intensamente. Non di rado essa è connessa all’acutizzarsi di sensi di colpa come nel caso in cui il paziente vive la sua malattia come punizione per colpe commesse o nel caso in cui la malattia sia di fatto conseguenza di comportamenti immorali. Il malato grave può avvertire con particolare disagio anche la mancanza di autonomia e il sentirsi di peso agli altri.

Queste diverse forme di sofferenza non si possono separare del tutto l’una dall’altra e sono spesso diversi aspetti di una condizione che accompagna il malato. L’uomo infatti è sempre un’unità di soma, psiche e spirito. Per questo motivo anche in campo medico la sofferenza grave dovrebbe sempre essere presa in considerazione nei suoi diversi aspetti e dal punto di vista della gravità e della durata può essere così classificata:

– C’è la sofferenza lieve e passeggera, che può emergere da una lieve indisposizione o da un piccolo intervento chirurgico. In questo caso non fa problema in quanto la si può facilmente tollerare e la si può agevolmente comprendere come necessaria per raggiungere uno scopo positivo.

– C’è la sofferenza estrema che può risultare umanamente insopportabile, maggiormente fa problema ed difficile trovarne una giustificazione o una soluzione positiva.

– C’è la sofferenza seria, che impegna a fondo la persona chiamata a sopportarla in modo umanamente dignitoso.

Nel trattare il tema della sofferenza non si deve, comunque, appiattire il discorso unicamente sulle problematiche sollevate dalle forme di sofferenza estrema, come spesso capita, con il rischio di rimanere bloccati da un senso di impotenza e di assurdità. Occorre tener presente piuttosto le forme di sofferenza seria, quelle che si incontrano di frequente nella vita e che tutti dovremmo imparare ad affrontare in modo positivo.

Nell’intento di offrire un aiuto alla persona in ricerca per dare senso e valore alla sua condizione di sofferenza può risultare utile un’indagine sui vissuti esistenziali e sugli atteggiamenti psicologici che accompagnano l’esperimento in modo vivo e concreto della tensione tra dimensione spirituale e dimensione corporea. Lo spirito umano vive interiormente una vita che è sempre in crescita, è aperta all’infinito e aspira a una vita senza limiti di espansione e di tempo. Il corpo invece, in quanto organismo biologico, comporta limite e deterioramento e di conseguenza, con il passare del tempo, riduzione delle energie vitali e delle possibilità di vita. Da questa esperienza può nascere una crisi esistenziale che costringe la persona a ripensare il senso della propria esistenza.

Mentre si avvertono reazioni in senso negativo alla situazione di sofferenza, quali l’impazienza, il rifiuto, la ribellione, il fatalismo, la chiusura, il senso di fallimento o il senso di colpa, spesso emergono reazioni in senso positivo quali l’accettazione della precarietà e del limite, l’integrazione e l’apertura degli orizzonti dei propri interessi, l’impegno personale nel prendere in carico la propria salute e le decisioni che la riguardano, la fiducia negli altri, la crescita in umanità, valorizzando l’esperienza della malattia come occasione per crescere in «umanità» e nella maturità personale. Di conseguenza la sofferenza può diventare un momento di maturazione nella comprensione del senso della vita e dei valori autentici e duraturi.

In tale prospettiva, che psicologicamente è ritenuta umanistico-esistenziale, ed ha come rappresentanti eccezionali Karl Jaspers e Viktor E. Frankl, la sofferenza ha una funzione fondamentale nell’esistenza umana: è segno dell’uomo e della sua umanità e, nello stesso tempo, è segno della trascendenza: l’uomo è più della sofferenza, è più dello sfruttamento, è più della morte. Il senso dell’esistenza umana va al di là delle realizzazioni storiche.

È impossibile restare indifferenti dinanzi alla sofferenza, propria e degli altri. L’uomo è esistenzialmente coinvolto, invitato a prendere posizione. Alcuni dei più appariscenti atteggiamenti che la persona prende dinanzi a situazioni di sofferenza il più significativo è quello della speranza, consistente nel credere alle proprie possibilità e ai compiti che si è chiamati a realizzare. E a tale proposito è quanto mai rilevante il richiamo al poeta Hebbel il quale affermò che «la vita non è qualcosa, essa è sempre solo un’occasione per giungere a qualche cosa». Vedere la vita come un compito da realizzare momento per momento, come una continua occasione per attuare qualcosa, come una possibilità storica, concreta, offerta all’impegno di ciascuno, consente anche di scoprire le possibilità che, legate a una determinata situazione e a un circoscritto tempo e luogo, fanno riferimento a ciò che la persona realizza, a ciò che ama e anche a ciò che soffre.

Nel salmo 56 si legge: «I passi del mio vagare tu li hai contati, le lacrime nell’otre tuo raccogli; non sono forse scritte nel tuo libro?». Si tratta di un’immagine quanto mai espressiva! Ciò che l’uomo vive, soffre, ama, spera, piange, viene conservato nel libro della vita. Ogni azione contribuisce a innalzare il proprio monumento che si va costruendo giorno per giorno, con il lavoro, l’amore, la sofferenza.

Se nel lavoro la persona può manifestare se stessa dando alla realtà la sua personale impronta, se nell’amore può vivere le più forti e intime esperienze, nella sofferenza si manifesta la sua grandezza, perché solo in essa la persona si trova tragicamente messa a confronto con se stessa, con la sua capacità non solo di lavorare e di godere, ma di soffrire e di inondare di senso anche una vita apparentemente distrutta, economicamente infruttuosa. La sofferenza, come afferma Viktor E. frankl, «non rappresenta semplicemente una possibilità qualsiasi, bensì la possibilità di attuare il supremo valore, l’occasione per conferire pienezza al significato più profondo della vita».

Un tale senso riluce nell’atteggiamento che la persona prende dinanzi a un destino di sofferenza, dinanzi alle forze avverse, dinanzi a situazioni irreparabili. Ecco perché l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe nel 1784 volle che sull’entrata del Policlinico di Vienna fosse riportata la frase latina: Saluti et solatio aegrorum. Il medico, e in senso più lato il terapeuta, non è incaricato solo della salute fisica e psichica del paziente; egli è chiamato ad aiutarlo a sopportare con accettazione e comprensione le inev
itabili sofferenze che la vita gli riserva. Questo vuol dire che non solo deve aiutarlo a riacquistare la capacità di lavorare e di godere, ma anche quella di soffrire.

Due sono le condizioni necessarie per aiutare la persona ad assumere un atteggiamento positivo nei confronti di un destino di sofferenza: soffrire in un contesto valido e soffrire per amore di qualcosa o di qualcuno.

Una sofferenza può essere superata solo se la si concepisce in un contesto valido, ossia se viene collocata in un quadro di riferimento che consente di scoprire le possibilità che ancora permangono da realizzare. Di fronte alla sofferenza, infatti, ci si può porre in maniera masochistica oppure con atteggiamento di fuga (ad esempio, con il suicidio). Ma la si può anche assumere con maturità dignitosa, pur nella comprensibile difficoltà a capirne tutta la portata significativa. Ed ecco allora che vengono in aiuto le quattro modalità che Frankl indica e che consentono di collocare la sofferenza in un contesto carico di senso.

La prima, che caratterizza la sofferenza come prestazione, emerge dal fatto di considerare ogni decisione attuale come frutto naturale, anche se spesso faticoso, di un cammino precedente, nel quale la persona ha individuato come centrali alcuni valori da realizzare. In tale prospettiva, l’atteggiamento che si assume dinanzi alla sofferenza inevitabile costituisce l’ultimo anello di un’intera catena di decisioni, alla cui origine c’è un atto consapevole di libertà.

La seconda modalità è quella della crescita, grazie alla quale la persona vede la sua situazione da una prospettiva diversa, dalla parte delle radici, potremmo dire, e quindi si pone il quesito esistenziale di cosa fare della sua sofferenza. La conseguenza è il ridimensionamento di certe fissazioni, il calo di certe pretese assurde, un maggiore contatto con la realtà. «Mentre trasporto il fatto a un livello superiore, pongo anche me stesso e la mia propria esistenza su un gradino superiore. Questo vuol dire crescere».

La terza modalità è quella della maturazione che «poggia sul fatto che l’essere umano giunge a una libertà interiore nonostante la dipendenza esteriore» e quindi riesce meglio a valutare lo stile di vita precedente, superando la pura e semplice fase della banalità e della superficialità piatta del quotidiano anonimo. Non si è più cullati dalle onde tranquille e sicure, ma ci si trova a dover affrontare i pericoli e gli scogli, le domande e gli appelli. E questo fa maturare, e come!

La quarta modalità è quella dell’arricchimento, legata al fatto che la sofferenza «rende l’uomo perspicace e il mondo trasparente», e quindi consente di cogliere la verità nella sua genuinità, senza gli orpelli che la società, le strutture, le aspettative ambientali e sociali impongono pesantemente sul suo volto.

La seconda condizione per aiutare la persona a saper far fronte alle prove dolorose della vita è quella di far scorgere la possibilità di soffrire “per amore di qualcuno o di qualcosa”. Il che vuol dire tornare alla concezione dell’intenzionalità, dell’orientamento verso valori e compiti, del superamento di un rapporto egocentrico e solipsistico, incapace di alzare lo sguardo al di sopra dei propri bisogni e delle proprie aspirazioni. Il superamento, cioè, del piacere come obiettivo e come ideale della propria ricerca. In realtà, il piacere «cessa di essere tale non appena viene perseguito: l’uomo che lo ricerca ansiosamente non lo raggiunge mai. Il piacere può essere solo un effetto (‘una gratificazione’), non un’intenzione; si lascia solo effettuare, non intendere».

La sofferenza appartiene alla sfera più intima e personale dell’uomo. Chi non è educato alla sofferenza resta sempre un bambino! La crescita, la maturazione, l’arricchimento di una vita umana sono legati alla sofferenza e alla risposta alla domanda: “Perché soffrire?”. E una tale risposta non è pronunciata ad alta voce, con alterigia e superbia, ma viene detta nel profondo del proprio cuore, nell’intimo del proprio essere. Per Frankl «la risposta che l’uomo sofferente dà alla domanda sul perché della sofferenza, attraverso il come egli la sopporta, è sempre una risposta muta, ma […] è l’unica risposta che abbia senso».

E colui che avvicina l’uomo sofferente? Quale atteggiamento è da prendere quando ci si trova in situazioni in cui non è più possibile guarire, non è più possibile lenire i dolori e le sofferenze fisiche? Non si è forse tentati di distogliere l’attenzione con inutili e controproducenti surrogati? Ecco ancora le parole di Frankl: «Un’ultima parola, non all’uomo sofferente, ma all’uomo che avvicina il sofferente e soffre con lui: se la sofferenza ha senso, ha senso anche la sua condivisione, la compassione. Ma, come la sofferenza, anche la compassione è silenziosa. Il linguaggio ha, infatti, dei limiti. Dove tutte le parole sarebbero ben poca cosa, là ogni parola è di troppo».

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ZENIT Staff

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