Resurrezione e speranza di un popolo

Una riflessione di mons. Bruno Forte sull’emergenza terremoto in Emilia-Romagna

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ROMA, mercoledì, 30 maggio 2012 (ZENIT.org).- Riportiamo di seguito l’editoriale a firma di monsignor Bruno Forte, arcivescovo della diocesi di Chieti-Vasto (in Abruzzo), pubblicato nell’edizione odierna del quotidiano Il Sole 24 Ore.

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È stata colpita al cuore l’Italia vivace, laboriosa, produttiva, quell’Italia che sa rimboccarsi le maniche, che non si arrende nelle prove. È l’Italia che tutti sentiamo nostra, quale che sia la collocazione geografica di ciascuno di noi nello Stivale, l’Italia dell’imprenditorialità diffusa, della qualità della vita dignitosa, della partecipazione attiva dei singoli e della società civile alle sorti comuni. Sin dall’inizio dell’evento sismico, le reazioni della gente e dei responsabili delle istituzioni ci avevano colpito per il loro coraggio e la fiducia nella ripresa immediata. Anche per questo, le forti scosse di ieri con l’atroce numero di vittime provocate ci sono apparse come una sfida terribile, che ha fermato in molti luoghi le attività appena ricominciate, quasi a voler smorzare o addirittura fermare la tenacia di un popolo avvezzo al lavoro e desideroso di ricostruire al più presto le condizioni di una vita normale. Il sacrificio della vita è toccato a non pochi lavoratori, italiani e immigrati: questa comune appartenenza alla fragilità e alla morte ci ricorda la pari dignità di ogni persona umana, mentre evidenzia – se mai ce ne fosse stato bisogno – l’apporto prezioso che tanti cosiddetti extracomunitari stanno dando alla vita del Paese, fino al costo di sé. Anche loro sono l’Italia operosa e civile, questi uomini e donne fuggiti spesso dalla povertà e dalla fame per inseguire fra noi un futuro migliore, fratelli nostri in umanità e componente sempre più vitale del nostro sistema produttivo e civile. Don Ivan, poi, il sacerdote morto mentre cercava di portare in salvo la Madonnina della sua Chiesa parrocchiale di Rovereto, uno dei paesi della Bassa modenese maggiormente colpita dal sisma, è emblema di quella fede umile e profonda, che ha fatto e fa la forza di tanti Italiani, sorgente del dono di sé e della speranza fiduciosa anche nelle ore più difficili della nostra storia.

Davanti a queste vite spezzate, a quest’umanità generosa e piena stravolta dall’evento sismico, nascono naturalmente i tanti interrogativi sulle possibili responsabilità degli uomini: era prevedibile ciò che è successo? Erano adeguate le strutture abitative e quelle dei luoghi di lavoro? Le risposte non sono facili e non bisogna congetturare partendo da una fiducia eccessiva nelle possibilità umane di fronte alle forze della natura. Un esame approfondito andrà fatto per accertare la verità, con rigore e senso della misura e della realtà. Solo così l’esperienza potrà insegnare qualcosa per il futuro cammino. Ora occorre, però, uno slancio di prossimità solidale e intelligente: non solo lo Stato, ma l’intera comunità delle donne e degli uomini che fanno la nostra Italia devono sentire vicina la causa della rapida resurrezione dell’Emilia colpita. A nessuno è lecito estraniarsi né dimenticare in fretta, come purtroppo spesso è avvenuto (e la vicenda del terremoto de L’Aquila dolorosamente insegna!). Occorre tener desta l’attenzione e organizzare la speranza. Né ci si può sottrarre alle domande su un’altra responsabilità, che sorgono spontanee e inquietanti nel cuore di molti: dov’era Dio nell’ora del sisma? Si era distratto? Era lì come sempre? Era lì come l’eterno Assente? o il misterioso Amore? Nella sua memoria di Auschwitz, Elie Wiesel racconta del bambino impiccato perché aveva tentato la fuga, dibattutosi a lungo con il cappio della morte davanti agli occhi impietriti dei prigionieri del campo. Anche allora era risuonata la domanda: “Dio? Dov’è il tuo Dio?”. E la voce di un prigioniero fra i tanti aveva risposto: “Dio è lì, appeso a quella forca” (E. Wiesel, La Notte). Non è atea o blasfema questa frase gridata nel dolore, o per lo meno non è solo questo: quello che muore con l’innocente che muore è il Dio tappabuchi, il Dio impassibile, indifferente spettatore del dolore umano. Proprio così, però, la frase ha un altro senso: Dio è appeso a quella forca perché non lascia solo chi soffre e chi muore. Gli fa compagnia. Lo porta con sé nella morte, oltre la morte…

Un Dio burattinaio del mondo non regge al confronto col dolore umano. Solo il Dio “compassionato”, come si diceva nell’italiano del Trecento, solo un Dio cioè fattosi compagno del dolore per amore nostro e perciò capace di sostenerci nella prova, è il Dio che regge lo sguardo dei sofferenti impietriti davanti alla morte imprevedibile e sconvolgente dei loro cari. Dove abita questo Dio? Sembra paradossale dirlo, ma è molto più vicino a noi di quanto potremmo pensare. Se due millenni di cristianesimo ci hanno abituati allo scandalo del Dio crocifisso, al punto da vivere come se Lui non ci fosse, la freschezza del racconto evangelico continua a riproporci la domanda lancinante: “Mio Dio, mio Dio perché mi hai abbandonato?”. Non è un ateo, né un bestemmiatore a gridare così: è il Figlio. E in Lui sono tutte le voci e i silenzi del dolore umano che vengono raggiunti dalla compagnia del Dio vicino, abbandonato con gli abbandonati, solo per essere accanto a tutte le solitudini, ferito come la gente provata dal sisma. La stessa voce, da quello stesso albero di morte e di vittoria, aggiunge: “Nelle Tue mani affido il mio spirito”. È la fede di quella gente solida e forte, che continua a sperare e a voler andare avanti con dignità grande, nonostante tutto. La fede di Don Ivan, consegnata al Dio con noi, venuto fra noi per piangere e sperare, per vivere e morire, per credere e per amare, per accompagnarci nell’ultimo silenzio e darci la forza di ricominciare il cammino senza fermarci.

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ZENIT Staff

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