Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi ai lettori di Zenit la seguente riflessione sulle letture liturgiche della IV domenica di Quaresima. Come di consueto, il presule propone anche una lettura patristica.
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LECTIO DIVINA
La gioia di essere figli
IV Domenica di Quaresima – Anno C – 10 marzo 2013
Rito Romano
Gs 5,91.10-12; Sal 33; 2 Cor 5,17-21; Lc 15,1-3.11-32
Rito Ambrosiano
IV Domenica di Quaresima del Cieco
Es 17,1-11; Sal 35; 1Ts 5,1-11; Gv 9,1-38b
1) La pecora salvata, la dracma trovata, il figlio perdonato, sempre.
La liturgia romana di oggi offre alla nostra meditazione la parabola del figlio prodigo e del Padre misericordioso. Questa parabola, nel capitolo 15 del Vangelo secondo Luca, è preceduta da altre due: quella della pecorella smarrita e riportata all’ovile sulle spalle del buon Pastore, e quella della dracma perduta e ritrovata (una dracma era equivalente a un denaro che era allora stipendio di un giornata di lavoro, come ce lo dice anche la parabola degli operai dell’undicesima ora).
Lo scopo di questi tre racconti è di fare in modo tale che prendiamo coscienza che la salvezza ci viene dalla fraternità di Cristo che ci porta sulle spalle, dalla maternità della Chiesa che ci cerca, e dalla paternità di Dio che ci accoglie sempre.
In effetti, se assumiamo il Corpo di Cristo, sulle cui spalle di buono e fraterno Pastore, siamo riportati all’ovile della comunione. Se accettiamo la sollecitudine materna della Chiesa, che cerca noi come quella donna cercava la sua moneta perduta, diventiamo parte del tesoro di casa. Se confidiamo nella riconciliazione che Dio ci riceve come tenero padre, la Casa di Dio diventa la nostra dimora di figli. (cfr Sant’Ambrogio da Milano, Commento a San Luca, XV).
L’importante è lasciarsi trovare come la pecora e la dracma, e lasciarsi perdonare come il figlio prodigo.
Per fare questo occorre belare come la pecora smarrita, la cui lamento fu udito dal pastore che la cercava e che la tolse dai rovi. Occorre stare fermi, saldi nella pazienza perché la madre ci ritrovi. Occorre avere fede nel perdono per tornare dal Padre, il cui pianto si trasforma in gioia. In effetti che cosa è mai una pecora in confronto d’un figlio tornato alla vita, d’un uomo salvato. E cosa vale una dracma in confronto di un peccato che ritrova la santità.
La rivelazione di Dio come Padre è una delle grandi novità della lieta novella di Cristo. Dio è Padre e ci ama come un Padre ama i suoi figli, e non come un Re ama i suoi sudditi, e dà a tutti i suoi figli il pane quotidiano e accoglie nella gioia anche quelli che peccarono, quando tornano ad appoggiare il capo sul suo petto di Padre ricco di misericordia, Sovrano di tenera pietà.
2) Misericordia: spiegazione etimologica, ma non solo.
La parola “misericordia” è usata per tradurre il termine greco “éleos”, che usiamo ancora oggi nella liturgia per domandare Dio di avere pietà di noi. Ma a sua volta questo termine greco è usato per tradurre due termini ebraici hesed e rahamin.
Il primo, hesed, significa “la responsabilità del proprio amore”: responsabilità che deriva da un impegno preso, da una fedeltà a se stessi e, quindi, all’altro con il quale ci si è liberamente impegnati. Nel nostro caso, è la responsabilità che il Dio dell’Alleanza ha del suo stesso amore offerto e pattuito. Responsabilità che richiede l’umana risposta, ma va oltre la possibile infedeltà dell’uomo. Hesed è dunque dono, fedeltà e perdono.
Il secondo termine, rahamim, si riferisce direttamente alle viscere materne che si “commuovono per il loro frutto”, per il figlio, che impediscono alla madre di dimenticare. Il testo di Isaia 49, 15: “Si dimentica forse una donna del suo bambino così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne dimenticassero, Io invece non ti dimenticherò mai” è il versetto biblico più conosciuto, in cui un atteggiamento più che materno viene esplicitamente attribuito a Dio. Più in generale, rahamin indica “il luogo tenero di un essere umano”. Esso significa dunque “sentirsi o sapersi una cosa sola con un altri; descrive soprattutto il senso di intima unione del padre e della madre con il proprio figlio, dei fratelli, degli sposi tra di loro”. Secondo il Bultman – a cui si deve quest’ultima definizione nel Kittel – Grande Lessico del Nuovo Testamento – – la traduzione migliore sarebbe semplicemente la parola “amore”.
Per concludere queste digressione etimologica, il termine éleos che San Luca usa nel suo Vangelo è tradotto con misericordia: questa “misericordia” a sua volta rimanda sia alla grazie dell’Alleanza, sia alla tenerezza della paternità (materna) di Dio (si veda Giovani Paolo II, Enciclica Dives in misericordia che fa notare questa ricchezza terminologica, cfr n 5 e nota 64)
La parola “misericordia” (dal latino misereor: ho pietà, e cor, cordis: cuore quindi significa avere il cuore mosso a compassione dalla miseria altrui) traduce adeguatamente il greco influenzato dalla due parole ebraiche, perché mette in rilevo la tenerezza e la fedeltà perenne di Dio verso il suo popolo, verso i suoi figli. Dio è fedele. San Paolo osserva che anche se noi siamo infedeli, Dio rimane fedele, perché non può negare se stesso (cfr. 2 Tm 2,13).
L’esperienza della paternità nella famiglia si realizza come compagnia sicura coi figli, come fedeltà discreta, sempre pronta a intervenire, vigilante, nei loro confronti. Compagnia fedele, dunque, fino al perdono, all’infinito, ciò che impariamo continuamente dalla paternità smisurata del Dio con noi. È quanto scrive Paul Claudel ne “L’annuncio a Maria” in cui il vecchio padre Anna Vercors rivolto alla figlia Violaine dice: «L’amore del Padre non chiede compenso e il figlio non occorre che lo conquisti o che lo meriti. Come era con lui prima del principio, così resta: suo bene e sua eredità, suo rifugio, suo onore, sua giustificazione».
Quale gioia avere un Padre, della cui tenerezza e perdono noi siamo sicuri. Preghiamo dunque per prendere coscienza di essere figli di un Padre che non sa fare altro che amarci e perdonarci.
3) La gioia del figlio perdonato e del cieco guarito
Il figlio prodigo non tornò dal Padre perché era stanco di guardare i porci e di mangiare le ghiande, aveva fame del pane della gioia, che solo il Padre gli poteva donare. Tornò alla “verità di se stesso” (cfr Dives in misericordia, n 6), perché capì la sua dignità umana di figlio. Arrivato a casa sua il padre lo abbracciò e mettendo le mani sulle sue spalle lo benedì, accogliendolo nella sua pace.
In nessuna cosa l’anima di quel figlio errante aveva potuto quietarsi, all’ombra di nessun albero il suo corpo poté gustare riposo vero, e il cuore, che sempre è alla ricerca, e sempre è disilluso, in nessun bene trova la sua pace, in nessun piacere la sua gioia, in nessuna conquista la sua felicità. Ma ricevendo la benedizione di perdono dal Padre, questo giovane che aveva sperperato tutto torna a casa e per lui il Padre organizza subito un pranzo offrendo il vitello migliore e il pane della gioia
La felicità viene dall’esperienza dell’essere amato e dall’accettare questo amore divino che nessuno merita. Ma se il peccato nostro non è un’obiezione a Dio per perdonarci, non lo deve essere per noi per domandare umilmente la sua misericordia.
Un perdono, che dà luce, aiuta a credere e a crescere nella fede come accadde al cieco nato guarito da Cristo, di cui ci racconta il vangelo proposto oggi dalla liturgia ambr
osiana.
Immedesimiamoci in questo cieco e cerchiamo di immaginare quale visione si aprì davanti agli occhi suoi cieco quando per la prima volta vide il volto umano, la luce del sole e un mondo nuovo, mai immaginato; eppure ne era circondato fin dalla nascita; ma era vissuto nel buio. Se vogliamo capire meglio la gioia del cieco diventato vedente, pensiamo all’esperienza dei bambini nei primi anni di vita: con stupore indescrivibile guardano il mondo e ne scoprono sempre nuove bellezze. E cerchiamo di non soffocare in noi questo stupore e saremo capaci di vita. A questo riguardo San Giovanni Damasceno diceva: “I concetti creano gli idoli, lo stupore genera la vita”
Una vita da vivere con Dio che ci offre un’alleanza d’amore, un legame d’amore che rende lieti. Si tratta di un amore che ha tutte le caratteristiche di ogni amore, di amore filiale da parte dell’uomo, di amore paterno da parte di Dio. E’ amore di amicizia perché Gesù è un fratello nostro, Gesù si è fatto nostro fratello È amore di sposo nei confronti di Dio che è lo sposo nei confronti dell’anima che è la sposa.
Un vita da vivere nella luce di Dio, fonte di gioia che è piena perché la si sperimenta in qualcuno non in qualcosa. In qualcuno da cui ci si sente voluti infinitamente bene. e che ci sentiamo di amare.
Le Vergini Consacrate ci sono di esempio in questa risposta di amore che realizzano in modo completo con l’offerta della loro vita e sono icone di Cristo, lietamente. Sono esempio di consacrazione lieta alla verità e all’amore.
La donna consacrata all’ “Amore perfetto” (cfr RCV n. 55) che non lascia nessuno senza la sua luce, consacrata alla Vita come radicale gioia di esistere, risponde al compito di essere profezia vivente di quel ‘regno’ di carità a cui tutti siamo chiamati.
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LETTURA PATRISTICA
SANT’AMBROGIO
DAL COMMENTO AL VANGELO DI LUCA
“Unuomo aveva due figli e il piú giovane gli disse: «Dammi la mia parte di patrimonio” (Lc 15,11-12). Vedi che il patrimonio divino viene dato a coloro che lo chiedono. E non credere che il padre sia in colpa perché ha dato il patrimonio al piú giovane: non si è mai troppo giovani per il Regno di Dio, e la fede non sente il peso degli anni.
In ogni caso colui che ha domandato il patrimonio si riteneva capace di possederlo: Dio volesse che egli non si fosse mai allontanato dal padre, e non avesse ignorato gli inconvenienti della sua età! Ma poi se ne partí per un paese straniero – necessariamente dissipa il suo patrimonio chi si allontana dalla Chiesa -; lasciando la casa e la patria, “se ne partí per un paese straniero, in una regione lontana” (Lc 15,13).
Non c’è luogo piú remoto di quello in cui va chi va lontano da sé, e si allontana non per lo spazio, ma per i costumi, si separa non per la distanza ma per i desideri, e, come se mettesse in mezzo l’onda dei piaceri mondani, con la sua condotta spezza ogni legame. Chiunque infatti si separa da Cristo è un esule dalla sua patria, diventa cittadino del mondo.
Noi altri, invece, non siamo stranieri di passaggio, “siamo concittadini dei santi e membri della famiglia di Dio” (Ef 2,19); eravamo lontani, ma siamo stati fatti vicini nel sangue di Cristo (cf. Ef 2,13).
Ma non siamo maldisposti verso chi viene da una regione lontana, perché anche noi siamo stati in una regione lontana, come insegna Isaia; cosí leggi: “Per coloro che sedevano nella regione dell’ombra della morte, per loro è sorta la luce” (Is 9,2). La regione lontana è dunque quella dell’ombra della morte; ma noi che abbiamo per spirito dinanzi al volto il Cristo Signore (cf. Lam 4,20), viviamo nell’ombra di Cristo. Per questo la Chiesa dice: “Nella sua ombra sedetti desiderosa” (Ct 2,3).
Quello, vivendo nella lussuria, ha sciupato ogni ornamento proprio della sua natura: ebbene tu, che hai ricevuto l’immagine di Dio e che sei simile a lui, guardati bene dal rovinarla con una irragionevole e degenerata condotta. Tu sei opera di Dio…
“Venne la carestia in quella regione” (Lc 15,14): carestia non di pane e cibo, ma di buone opere e di virtù. Esiste un digiuno peggiore di questo?
In verità chi si allontana dalla Parola di Dio è affamato, perché “non di solo pane vive l`uomo, ma di ogni parola di Dio” (Lc 4,4). Se ci si allontana dalla fonte siamo colti dalla sete, si diventa poveri se ci si allontana dal tesoro, si diviene sciocchi se ci si allontana dalla sapienza, si distrugge infine se stessi allontanandosi dalla virtù.
È quindi naturale che costui cominciò a sentirsi in gravi ristrettezze, in quanto aveva abbandonato i tesori della sapienza e della scienza di Dio e la profondità delle ricchezze celesti (cf. Col 2,3). Egli cominciò a sentire la miseria e a soffrire la fame, perché niente è abbastanza per la prodiga voluttà. Sempre patisce la fame, chi non si sa nutrire degli alimenti eterni…
“E bramava di riempirsi il ventre di carrube” (Lc 15,16). I lussuriosi non hanno infatti altro desiderio che di riempirsi il ventre, perché “il ventre è il loro dio” (Fil 3,19). E a simili uomini quale cibo è più adatto di questo che è, come le carrube, vuoto di dentro, di fuori è molle, ed è fatto non per alimentare, ma per gravare il corpo, e che è piú pesante che nutriente?…
“Ed ecco, nessuno gliene dava” (Lc 15,6); si trovava infatti nella regione di colui che non ha nessuno, perché non ha quelli che sono. Infatti tutte le nazioni sono stimate un niente (cf. Is 40,17); non c’è che Dio, “che vivifica i morti, e chiama le cose che non sono come cose che sono” (Rm 4,17).
“Allora, tornato in sé, disse: «Quanti pani hanno in abbondanza i mercenari di mio padre!»” (Lc 15,17).
È ben vero che ritorna in sé, poiché si era allontanato da sé. Chi torna infatti al Signore torna in sé, mentre chi si allontana da Cristo rinnega sé.
Ma chi sono i mercenari? Non sono forse quelli che servono per il salario, cioè quelli d’Israele? Che non perseguono il bene per amore dell’onestà, che sono attirati non dalla bellezza della virtù ma dal desiderio del guadagno? Ma il figlio che ha in cuore il pegno dello Spirito Santo (cf. 2Cor 1,22) non cerca il meschino profitto di un salario di questo mondo, perché possiede il diritto all’eredità.
Vi sono anche dei mercenari che sono impegnati nei lavori della vigna. Buoni mercenari sono Pietro, Giovanni, Giacomo, ai quali è detto: “Venite, farò di voi pescatori di uomini” (Mt 4,19).
Costoro hanno in abbondanza non carrube, ma il pane: perciò poterono riempire dodici ceste di avanzi.
O Signore Gesù, se tu ci togliessi le carrube e ci donassi il pane, tu che sei il dispensiere nella casa del Padre! Se tu ti degnassi anche di accoglierci come mercenari, anche se veniamo sul tardi! Tu infatti assumi mercenari anche all’undicesima ora, e ti compiaci di pagare un’eguale mercede (cf. Mt 20,6-16), eguale mercede di vita, non di gloria; non a tutti infatti è «riservata la corona di giustizia», ma a colui che può dire:”Ho combattuto la buona battaglia” (2Tm 4,7ss)…
Se vi fosse restato anche quello, non si sarebbe mai allontanato da suo padre. Ma stiamo tuttavia attenti a non ritardare la sua riconciliazione, che il padre non gli ha ritardato. Egli si riconcilia volentieri, quando è pregato intensamente.
Apprendiamo con quali suppliche è necessario avvicinare il Padre. Padre, egli dice. Quanta misericordia, quanta tenerezza, vi è in colui che, pur essendo stato offeso, non sdegna di sentirsi chiamare padre! “Padre” – dice -, “ho peccato contro il cielo e dinanzi a te” (Lc 15,18).
Ecco la prima confessione della colpa, rivolta al creatore della natura, all’arbitro della misericordia, al giudice del peccato. Sebb
ene egli sappia tutto, Dio tuttavia attende dalla tua voce la confessione, infatti “è con la bocca che si fa la confessione per la salvezza” (Rm 10,10).
Solleva il peso della propria colpa colui che spontaneamente se ne carica: taglia corto all’animosità dell’accusa chi previene l’accusatore confessando: infatti “il giusto nell’esordio del suo discorso, è accusatore di se stesso” (Pr 18,17).
E d’altra parte sarebbe vano tentar di dissimulare qualcosa a colui che su nessuna cosa può trarre in inganno; non rischi niente, a denunziare ciò che sai esser già noto.
Meglio è confessare, in modo che per te intervenga Cristo, che noi abbiamo come avvocato presso il Padre (cf. 1Gv 2,1), per te preghi la Chiesa, e il popolo infine per te pianga. E non aver timore di ottenere. L’avvocato ti garantisce il perdono, il patrono ti promette la grazia, il difensore ti assicura la riconciliazione con l’amore paterno.
Credi dunque, perché il Signore è verità, e sii tranquillo, perché il Signore è potenza. Egli ha un fondamento per intervenire a tuo favore; altrimenti sarebbe morto inutilmente per te. E anche il Padre ha ben ragione di perdonarti, perché ciò che vuole il Figlio lo vuole anche il Padre.
Ti viene incontro colui che ti ha sentito parlare nell’intimo della tua anima; e mentre tu sei ancora lontano, egli ti vede e ti corre incontro (cf. Lc 15,20).
Egli vede nel tuo cuore, e corre a te perché niente sia di ritardo, ti abbraccia, anche. Nel venirti incontro è chiara la sua prescienza; nell’abbracciarti si manifesta la sua clemenza e il suo amore paterno. Si getta al collo, per sollevare colui che giaceva in terra carico di peccati, per sollevarlo verso il cielo in modo che possa cercarvi il suo autore.
Cristo si getta al tuo collo, per liberare la tua nuca dal giogo della schiavitù, e mettervi il suo giogo soave (cf. Mt 11,30). Non ti sembra che egli si sia gettato al collo di Giovanni, quando Giovanni riposava sul suo petto, con la testa rovesciata all’indietro?
Per questo egli vide il Verbo presso Dio, perché si era innalzato verso altezze sublimi. Il Signore si getta al collo, quando dice: “Venite a me, voi che siete affaticati, e io vi darò sollievo; prendete su di voi il mio giogo” (Mt 11,28-29). È in questo modo che egli ti abbraccia, se tu ti converti.”
(Ambrogio, In Lc., 7,213-230)