Ogni uomo ha diritto di essere curato. Senza distinzioni arbitrarie e discriminatorie. Sia se vive in Africa sia che viva ad Ancona. Sia che abbia 80 anni sia che viva nel grembo materno. Né i luoghi geografici né quelli anatomici (come il grembo di una mamma) possono esentare una civiltà dall’intervento curativo sul paziente-uomo. Uomo. Senza neanche distinzioni, come accade sovente, su qualità e quantità cellulare. È sotto gli occhi di tutti che l’embrione (per numero di cellule) e il feto-bambino (per patologia diagnosticata) soffrano di una discriminazione clinica-sociale.
Maggior tutela, dunque, bisognerebbe dedicare da punto di vita medico proprio all’embrione- feto-bambino. Indifeso, innocente, egli vive la sua dimensione di crescita in rapporto alla madre. Pur vivendo in un mondo strutturato all’interno del corpo femminile, il bambino è un unico e distinto essere umano rispetto alla madre. E se la sua crescita è minacciata da una patologia urge un intervento diagnostico che analizzi, tuteli il bambino e usi tutte le possibilità della scienza-tecnica per la sua salvaguardia. Senza eccezioni di sorta. Eliminarlo è un intervento di selezione artificiale.
Quando, con tutto l’apporto scientifico-diagnostico, la sentenza è di morte prossima (2 ore, venti giorni, 3 mesi dal parto), per un patologia che pone la vita a termine, l’esperienza delle famiglie de “La Quercia Millenaria” denota che non tutto è perduto. Non tutto profuma di morte. C’è una risorsa, a volte nascosta all’interno della stessa coppia, che fa abbracciare anche il dolore, nell’accoglienza di un bambino nel grembo destinato, ahimè, alla morte. È un amore-accoglienza che non si spaventa dinanzi ad un destino crudele, beffardo e impietoso. E che diventa, nella morte del neonato, quel seme che, ad imitazione della parola del Vangelo, “porta molto frutto”. Anzi frutti. Frutti di pace, di nuova fecondità naturale e spirituale (nonostante il dolore) e di resurrezione psicologica. Intere famiglie che vivono l’esperienza di vita e di accoglienza, nell’amore crocifisso delle famiglie della Quercia Millenaria, rappresentano un piccolo popolo di speranza. Nella mia esperienza il sorriso e la serenità di queste famiglie è un balsamo di vita. Accogliere ed amare un bambino, volgarmente definito difettoso o scientificamente terminale, perdipiù sopravvissuto allo scarto embrionale, è uno stimolo a percorrere strade verso orizzonti sconfinati di possibilità di altro amore. Più grande rispetto al dolore. E al sacrificio.
Per questo suonano come una bestemmia alla vita, all’amore e al buon senso parole che hanno il patentino di una certa ufficialità come queste e che lasciano, però, senza fiato: “Un bambino di una settimana non è un essere razionale e autocosciente, ed esistono molti animali non umani la cui razionalità, autocoscienza, consapevolezza, sensibilità e così via, sono superiori a quelle di un bambino umano, anche di un mese di età. Se il feto non ha lo stesso diritto alla vita di una persona allora ne deriva che neanche il neonato ha questo diritto, e che la vita di un neonato ha meno valore per lui stesso quanto la vita di un maiale, di un cane, di uno scimpanzé abbiano per l’animale non umano… pensare che la vita di un neonato abbia uno speciale valore perché è piccolo e grazioso è come pensare che un cucciolo di foca, con la sua soffice pelliccia bianca e i suoi occhini tondi, meriti più protezione di un gorilla, che non possiede questi attributi. […] Uccidere un bambino appena nato (poco importa se disabile o meno) non equivale mai ad uccidere una persona, vale a dire un essere che vuole continuare a vivere” (Peter Singer, Scritti di vita etica, Il Saggiatore, pp. 180-181, 350. È docente nelle maggiori università degli USA, Oxford e New York, scrive saltuariamente su “Il Sole 24 Ore”, ed è fondatore insieme a Paola Cavalieri del “Progetto Grandi Scimmie”).
Delirio intellettuale? Razzismo ammantato dall’abilitazione all’insegnamento in una cattedra universitaria? Chi può dirlo? L’autore della parole citate neanche menziona difetti e anomalie, rimane su un piano di mero bambino. Sano e vispo. Apre però scenari di darwinismo sociale a dir poco impressionanti. Che si scontrano con il reale, vissuto e accettato, di quelli che, con cura e dedizione, passione e amore, abbracciano il bambino giudicato un “mostro” da eliminare a norma di legge (la legge 194 è maestra giuridica in tal senso). Il bambino giudicato in alcune cliniche “mostro”, l’indesiderato sociale è semplicemente un figlio. Figlio: l’unica parola che realmente può commuovere il cuore di una mamma visitata dal dolore per una diagnosi infausta.
* Alessandro Di Matteo è coordinatore del Ramo Abruzzo de La Quercia Millenaria Onlus
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