L'eterno conflitto tra capitale e lavoro (Prima parte)

Qualche considerazione sull’immigrazione

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Un fantasma si aggira in ogni discussione sulla crisi ed è quello della disoccupazione. Le statistiche dell’OIL (Organizzazione Internazionale del Lavoro), a partire dal 2007, la rilevano in costante crescita in tutti i paesi dell’Occidente. Ma atteso che gli anni che precedono la crisi sono stati tempi in cui il costo del lavoro si è tenuto sostanzialmente basso, in linea se non addirittura inferiore agli aumenti di produttività, c’è un sospetto che circola a cui però non sento dare voce nei tanti dibattiti sulla crisi di questi anni. 

Vengo al punto: non sarà forse che ci sono troppi uomini e donne per la produzione? Mi spiego meglio, perché so che gli argomenti che cercherò di affrontare sono su un terreno minato, per le implicazioni che ne conseguono e che hanno molto poco di economico e tanto di politico. Infatti, quello che si vuole discutere è da un lato la contrapposizione tra capitale e lavoro e dall’altro l’impatto che l’aumento della popolazione ha avuto sul fragile equilibrio delle economie Occidentali. In particolare, circa l’aumento della popolazione c’è da evidenziare che negli ultimi 20 anni  le varie crisi regionali e la ben più grave crisi del blocco sovietico, ha scaricato sulle spalle di Germania, Francia ed Italia (solo per limitarsi ai Paesi che conosciamo meglio), migliaia di disperati che si sono aggiunti ai tanti migranti di altre poverissime realtà del nostro pianeta.  La prima considerazione da fare, pertanto, è sulla consistenza e il breve spazio di tempo in cui si è attuato il flusso migratorio. I dati ufficiali, basati sulle elaborazioni di EUROSTAT, accertano che L’Europa è il paese dove si trova un terzo degli immigrati del mondo, divisi tra Europa centro orientale (29 milioni circa), Unione Europea (27 milioni) ed Europa occidentale (2 milioni e mezzo). In queste stime, però, non si considera il fatto che molti cittadini stranieri hanno ottenuto la cittadinanza e, ad esempio, nell’Unione Europea il numero d’immigrati scende a circa 20 milioni. L’Unione Europea, dove sono Germania, Francia, Regno Unito e Italia ad ospitare il maggior numero di stranieri, è al secondo posto dopo l’America del Nord, che rimane il Paese di emigrazione per eccellenza . Stando alle stime, nella UE ai 20 milioni di immigrati, occorrerebbe aggiungere i clandestini, che  ammonterebbero ad almeno 8 milioni. 

Di fronte a tale enorme flusso migratorio, è normale chiedersi quale sia stato l’impatto nelle economie di approdo dell’aumento esponenziale della forza lavoro. Va premesso, che una situazione di forte disoccupazione nel mercato del lavoro sussisteva già agli inizi degli anni ‘90.  Dagli anni ‘90 in poi, tuttavia, i rinnovi nei contratti di lavoro che si sono susseguiti non hanno generalmente permesso recuperi in termini di effettivo potere di acquisto e neanche in termini di produttività: in media i salari reali, cioè, non sono cresciuti. Il costo del lavoro si è mantenuto basso per la presenza di nuovi lavoratori sottopagati ? Ed in effetti, a parità di offerta di lavoro, se aumentano le richieste di lavoro il salario non può che diminuire. Sarebbe, allora, più che lecito supporre che, atteso che dagli anni ‘90 è esploso il fenomeno dell’immigrazione, la maggior domanda di lavoro abbia inciso come calmiere sui salari. 

Ma vediamo se i c.d. effetti secondari della riduzione di salario sul sistema economico, possono controbilanciarne l’effetto negativo. Ed infatti, a salari più bassi in alcuni settori si associano minori costi di produzione e, quindi, prezzi inferiori e maggiore produzione. I minori prezzi andrebbero a beneficio del pubblico dei consumatori, i quali disporrebbero di maggiore potere di acquisto da indirizzare verso altri prodotti che in precedenza non avrebbero potuto acquistare. Questo provocherebbe un aumento nella domanda di lavoratori in quei settori dell’economia verso i quali si è indirizzata la domanda aggiuntiva dei consumatori; per attirare manodopera supplementare in questi settori, le imprese saranno disposte ad offrire ai potenziali lavoratori salari più elevati. Risultato complessivo: più potere di acquisto per i consumatori, maggiore richiesta di lavoratori ed in molti settori, maggiori salari. 

Tutto bene?  Purtroppo a noi sembra che la realtà sia diversa. Analizziamo la situazione con ordine, per capire meglio dove le cose non vanno! In primo luogo, si sostiene che il mercato del lavoro è un mercato fortemente segmentato e che, pertanto, il profilo del disoccupato comunitario (italiano, francese o tedesco che sia) è, per qualificazione ed aspettative, normalmente diverso da quello dell’immigrato.  Ne segue che è raro il verificarsi di una concreta concorrenza tra le due tipologie di lavoratore, e che quindi nella sostanza gli immigrati insistono sui soli lavori a margine o, addirittura su nuovi lavori (esempio lavavetri, distributori di giornali, ecc). Ma i presupposti sono, a nostro parere, quantomeno inesatti. 

A smentire tale prima argomentazione c’è, infatti, un dato incontrovertibile: non tutta  l’immigrazione è costituita da manodopera despecializzata, anzi abbondano i laureati con una buona preparazione di base, soprattutto, nelle discipline tecnico-scientifiche (ingegneri, geologi, chimici, ecc). Ma ammesso pure che gli immigrati ad alta qualificazione siano pochi e che sia, invece, sovrabbondante la presenza di nuovi lavoratori non specializzati, deve far riflettere la condizione di sudditanza oggettiva con cui gli immigrati offrono il loro lavoro. Essi si trovano, nei fatti, di fronte ad offerte di lavoro a condizioni normalmente migliori di quelle in vigore nei Paesi di emigrazione, e generalmente non sono in grado di valutare il complesso dei diritti che gli sono attribuiti dalla legislazione del Paese che li ospita. Conseguenza: i lavoratori comunitari si allontanano da quel mercato che viene assorbito dai lavoratori immigrati. In definitiva, lo spiazzamento della manodopera nativa da parte dell’immigrato (c.d. «job displacement») sarebbe inconsistente solo nell’ipotesi che il numero dei posti di lavoro fosse in crescita e non  uno « stock» prefissato, come invece è stato in questi anni . Uno studio, relativo agli USA, del Cato Institute mostrerebbe che ogni nuovo lavoratore dotato di professionalità specifiche nei settori ad alto valore aggiunto, provocherebbe, come effetto indotto, la creazione di circa 3 nuovi posti di lavoro nei settori tradizionali. Ma a ben vedere, i numeri dei disoccupati in crescente aumento sembrerebbe smentire, anche,  questa ipotesi ed anzi, a funzionare maggiormente è il c.d. effetto miraggio, per cui l’illusione di nuova ricchezza alimenta l’ingresso di nuovi poveri, riducendo nel totale la ricchezza pro-capite.  Insomma, un problema non di poco conto di fronte al quale non si può oltre chiudere gli occhi.

(La seconda parte segue domani, giovedì 11 luglio)

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Enea Franza

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