L’uomo dei nostri tempi è proiettato verso il progresso tecnologico, verso le scoperte scientifiche, verso un futuro che ha l’illusione di poter stringere nelle proprie mani. Questo essere proiettati al domani, per rendere migliore il mondo in cui viviamo, è sicuramente un qualcosa di buono solo quando non si trascura la verità più profonda iscritta nel cuore dell’uomo: il suo essere limitato, debole, mortale, finito.

Queste constatazioni del proprio essere non devono certo scoraggiarci, ma devono farci riflettere sul senso della vita in rapporto all’eternità. E proprio questo il senso della domanda del dottore della legge a Gesù, domanda nella quale possiamo dire che è racchiuso tutto il Vecchio e Nuovo Testamento: “«Maestro, che devo fare per ereditare la vita eterna?».” (Lc 10,25). Come raggiungere la vita eterna era l’assillo di ogni uomo di fede, era una domanda alla quale nessuno conoscitore delle Sacre Scritture poteva sottrarsi.

Ma questa domanda presentava davvero tante risposte, ognuna delle quali era associata alle varie interpretazioni della Parola di Dio, o più semplicemente a convinzioni molto personalistiche. Gesù risponde semplicemente e brevemente, come è nel suo stile, rimandando proprio alla Legge, dalla quale attingevano le loro considerazioni gli scribi: «Che cosa sta scritto nella Legge? Che cosa vi leggi?». (Lc 10, 26).

La risposta dello scriba è un richiamo al duplice comandamento dell’amore: l’amore a Dio e l’amore al prossimo. La domanda su chi sia realmente il prossimo, diventa l’occasione per Gesù di identificarne con chiarezza il suo ritratto. La mentalità giudaica aveva allargato il concetto di prossimo non solo a coloro che appartenevano al popolo giudaico, ma anche agli stranieri che abitavano nella loro regione. Comunque era convinzione comune di non considerare “prossimo” tutti coloro che abitavamo fuori i confini della terra d’Israele. I samaritani erano esclusi da questo ambito, anzi era considerati come nemici, perché eretici, perché colpevoli di essersi costruiti un altro tempio ed essere stati influenzati dalle religioni pagane dell’antico oriente.

Proprio per questo, Gesù prende come personaggio centrale del suo racconto un samaritano che scende da Gerusalemme a Gerico, dal cielo in questo mondo. In questo samaritano i Padri della Chiesa hanno visto impersonificata sia la figura di Cristo sia quella di Adamo. Infatti Adamo, dopo la cacciata dal paradiso, è stato spogliato della piena vicinanza con Dio,  per essere rivestito di una umanità mortale, debole, passibile di dolore. Dall’altro parte, quel samaritano è Cristo, che è venuto tra noi nel mistero dell’incarnazione, per prendere la nostra umanità mezza morta e per restituirgli la vita comunicando la Sua natura divina.

Ecco il primo grande insegnamento di questo racconto. Dio non lascia solo l’uomo, ma viene sempre in nostro aiuto. Non fa come il sacerdote o il levita, che guardano da lontano una persona morente, non osano avvicinarsi per paura di essere contaminati ed essere esclusi dalla vita religiosa.

Il vero culto a Dio è quello di andare incontro verso i sofferenti, fasciare le ferite dei loro peccati, versare l’olio di consolazione riservato ai figli di Dio, versare il vino dello spirito attraverso il suo rimanere vicino a noi nella sventura.

Lo sguardo di Gesù è pieno di compassione, perché non rimane insensibile alla sofferenza umana. La tiepidezza del sacerdote e del levita stanno ad indicare che la salvezza non può venire dalla legge, dall’osservanza esteriore di una parola che poi non si riesce a mettere in pratica, quando ci si trova davanti ad un bisognoso. La salvezza viene da Dio, dalla fede in un Dio che scende dal cielo per chinarsi su ognuno di noi, un Dio che vuole guarirci e farci ritrovare la piena salute spirituale.

E Gesù non vuole salvare l’uomo senza l’azione dell’uomo. Il samaritano, Gesù fatto carne,  porta quell’uomo maltratto ad un locanda, che è figura della Chiesa, abitata da uomini e donne raggiunti ed afferrati dall’amore di Dio.

Le due monete rappresentano la Parola di Dio ed i Sacramenti che Gesù lascia per essere l’indispensabile sostentamento, senza i quali non potremmo avere la vita. Quelle due monete rappresentano anche l’immagine e l’iscrizione del Padre e del Figlio, che l’albergatore, ossia lo Spirito Santo, vuole imprimere nel cuore dei suoi locandieri, nello spirito dei figli della Chiesa.

Il Buon samaritano si allontana, ascende al cielo, ma prima lascia una consegna e una promessa di eternità a quell’albergatore, ed ha tutta la Chiesa: “Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno. “ (Lc 10, 35).

In queste parole è racchiusa la speranza della Chiesa, chiamata in tutti i tempi a prendersi cura di ogni uomo, soprattutto di coloro che sono segnati da quelle ferite inflitte dai briganti di questo mondo. Il comando di Gesù non è solo una teoria, ma deve essere interpretato come un invito all’azione: “Và e anche tu fà lo stesso» (Lc 10.37)”.

Il dottore della legge ha ricevuto la sua risposta. Tutti noi adesso sappiamo che è il nostro prossimo è qualunque persona che incontriamo nel nostro cammino terreno e che ha bisogno di noi. In un mondo globalizzato, che ha reso più vicini tutti gli abitanti del nostro pianeta, non abbiamo alcuna giustificazione nel trovare un prossimo da soccorrere, da aiutare, da amare.