Qualche tempo fa, ci siamo già interessati di alcuni movimenti artistici del ‘900, analizzandone i fondamenti teoretici e i riferimenti filosofici cui afferiscono[1]. Ora vogliamo affrontare uno snodo cruciale delle esperienze artistiche degli anni ’60 e ’70 del secolo scorso, che si dipana dal grande fenomeno dell’Arte Concettuale, ovvero le esperienze che si spostano dalla produzione oggettuale degli anni Sessanta alla Kosuth verso l’art-language e la body-art.

Questa riflessione vuole anche mostrare  che la sola analisi formale applicata alla storia dell’arte non è sufficiente alla comprensione, e  che è necessario disporre di molti strumenti per affrontare il complesso mondo delle arti. Infatti, pochi strumenti storico-critici, che affrontano il tema quasi esclusivamente da un punto di vista formale, non riescono a mostrare fino in fondo le varie ramificazioni del discorso più ampio che sempre le arti portano con sé.  Faccio qui riferimento al concetto di “sistema d’arte” [2].

Esiste una relazione profonda tra forma, visione del mondo e religione. Dunque le sole forme non esistono in quanto tali, ma sono segni che rimandano costantemente ad una precisa visione del mondo ed è compito dello storico dell’arte ricostruire tali nessi, ovvero descrivere i vari sistemi d’arte.  Nel nostro caso, non si può ignorare che alcune forme  concettuali e performative dei movimenti artistici del ‘900, veicolano la volontà, storicamente riscontrabile, da parte di alcuni gruppi di uscire dalla “visione cristiana del mondo”, in una ricerca di segni che, sebbene animata da una finalità “laicista”, di fatto approda nella maggior parte dei casi a “visioni del mondo” comunque “religiose”, ma esoteriche, “tribali”,  o addirittura neo-pagane. Il caso dell’immenso arcipelago dell’Arte Concettuale mostra come “segni”, apparentemente giudicabili come  portatori  “neutri”  di senso o di non senso, abbiano in realtà la loro più profonda radice in un ambito che  muove dai risultati di una certa antropologia culturale militante, per poi addentrarsi nel vasto territorio dell’inconscio, per giungere ad un approdo rituale e religioso (non cristiano).

Alle volte, accade di confondere la riflessione linguistica sul segno e sulla designazione -che necessita di alcuni principi logici, senza i quali non è possibile affermare nulla-, con una operazione che vuole disgregare il linguaggio affermando in qualche modo l’illogicità del segno linguistico e quindi del linguaggio [3]. In questa prospettiva, si comprende come l’operazione Magritte oppure Duchamp non è che l’ultimo atto di un lungo percorso che, partendo dall’assunto indimostrato che l’arte -per esempio pittorica- non abbia alcun valore veritativo,  giunge alla negazione del concetto di analogia che pone in relazione un oggetto, il suo nome e la sua designazione. Da qui ne conseguirebbe che per dare senso è necessario qualcos’altro, e paradossalmente il mondo iper-tecnologico e consumistico ricerca questo “altro” nel feticcio desunto dal mondo ancestrale dell’archetipo junghiano o dall’azione “performativa” rituale del mondo tribale. Questo aspetto si lega alla evidente schizofrenia della modernità, che ha contemporaneamente come modelli il futuro per lo sviluppo della tecnologia e il neo-paganesimo per l’assetto socio-politico della teorizzata “nuova” umanità.

Il movimento variegato dei primi concettualisti, come ricorda Gillo Dorfles [4], ha preso sicuramente le mosse dall’esperienza dissacratoria dell’oggetto artistico di Marcel Duchamp il quale, elaborando giochi di parole, metafore visivo-verbali e invenzioni linguistiche, ne ha influenzato radicalmente il campo espressivo. Il gruppo dei primi concettualisti è molto folto; americani, tedeschi, inglesi, francesi si rincorrono nelle invenzioni e negli spostamenti dissacratori sempre più serrati. Tra questi anche l’italiano Piero Manzoni (1933-1963) apporta un contributo fondamentale nell’elaborazione di un pensiero filosofico-religioso in via di definizione. Apparentemente sembra che tutto si muova su un piano logico, filosofico, linguistico, ma in realtà il vero movimento si attua nel campo teologico e religioso. E’ un movimento che parte di fatto dall’apostasia del Cristianesimo, più in particolare del Cattolicesimo, nell’arte, verso riti e culti pre-cristiani o più semplicemente non-cristiani.

E’ importante riflettere sul gruppo di artisti che preferisce agire direttamente attraverso il medium del proprio corpo, come i diversi appartenenti alla cosiddetta  body-art. Le esibizioni autolesioniste di Gina Pane o di Vito Acconci sono l’espressione emblematica di un fenomeno che ha preso il largo con l’esplosione delle azioni performative di Joseph Beuys.

Beuys è nato nel 1921 in Germania, e da giovane fece parte della Hitler-Jugend (Gioventù hitleriana) e durante la Seconda Guerra Mondiale si arruolò nella aviazione militare tedesca, la Luthwaffe. Il suo aereo venne abbattuto in Crimea nel 1943, e fu soccorso da dei nomadi tartari che lo curarono usando la loro medicina tradizionale.  Probabilmente la complessa situazione psicologica causata dalla guerra e dal periodo postbellico, insieme al contatto con la cultura sciamanica del popolo nomade che lo salvò, concorrono al suo profondo interesse per il pensiero psicanalitico di Freud. Pur di formazione cattolica, Beuys aderisce col tempo alla antroposofia di Rudolf Steiner.

L’obiettivo dell’azione performativa e concettuale di Beuys è lo sconfinamento totale del concetto di arte, fino al  tipico motto “Ogni uomo è un artista”, con la volontà di introdurre nella quotidianità il valore salvifico dell’arte, intesa come luogo di ricerca di valori e di significati universali. Egli di fatto si è proposto come artista-sciamano, influenzando non pochi ambienti culturali del Novecento e diffondendo una riflessione antropologica definibile, come nel caso dell’Arte Povera, neo-tribale, psicologista e neo-pagana.

Per esempio in Hermann Nitsch, si notano chiari riferimenti ad una visione decadente della civiltà europea ed occidentale in generale, derivata da una lettura di opere freudiane come Das Unbehangen in der Kultur (Il disagio nella cultura) del 1929,  e dalla lettura di scritti di Malinowski come Sex and Repression in Savage Society del 1927, dedicata al fondamento edipico del complesso avuncolare nelle società  cosiddette “primitive”.  Il messaggio finale che ne deriva è che il processo di presa di coscienza del senso di colpa può essere superato solo con una ribellione alla società e alla cultura occidentali, interpretate come repressive.

Il complesso sostrato di Hermann Nitsch si muove tra l’influenza decadente della riscoperta della catarsi dionisiaca nella tragedia greca a opera di Friedrich Nietzsche, il voyeurismo sadico e masochistico del marchese De Sade, il freudiano superamento del senso di colpa dell’uomo occidentale mediante la trasgressione sessuale. 

Se per l’Arte Povera il paradigma è l’inconscio collettivo e il concetto di archetipo junghiano, per Nitsch è la ritualità religiosa del sacrificio cruento a operare una catarsi e purificazione. Hermann Nitsch afferma che le sue azioni rituali effettuino catarsi e purificazione nello spettatore, mediante il  disgusto e il ribrezzo che provocano.

La “ritualità” di Hermann Nitsch è un insieme sincretico di elementi dal nome inquietante ed eloquente Orgien-und-Mysterien-Spiel (Teatro delle Orge e dei Misteri): egli si presenta come un sommo sacerdote che, in un rito orgiastico dionisiaco, unisce ai riti di sangue di un vero e proprio rituale sacrificale con animali squartati ed eviscerati, la sovrapposizione di elementi desunti dalla tradizione cristiana, croci, paramenti sa cri sacerdotali, imbrattandoli di sangue e musealizzandoli come fossero reliquie.

Prende le mosse da una certa antropologia psicanalitica, anche il pensiero di Gèza Roheim (1891-1953) che in Origine e funzione della cultura propone la sublimazione come unico mezzo per la edificazione della cultura, ad ogni livello: tutte le attività produttive vengono ricondotte solo all’inconscio. Da questa prospettiva, che assume in maniera riduttiva un’antropologia di tipo psicanalista, muovono molte affermazioni artistiche. Significative sono le azioni autolesioniste di Acconci e di De Dominici o quelle mortali di Schwarzkogler, dentro le quali traluce una certa lettura di Freud o Malinowski,  oppure le perfomances di Marina Abramovič e di Tania Bruguera, che riecheggiano in qualche modo Ernest Jones o Ernesto De Martino. Roheim scrive « lo scienziato è un voyeur che strappa i segreti di Madre Natura, il pittore continua a giocare con le sue feci, lo scrittore di narrativa non rinuncia ai suoi sogni diurni, e così via». [5]

Questi brevi cenni mostrano come ciò che primariamente muta e muove il mondo delle esperienze artistiche del Novecento non è tanto e solo la questione delle forme, ma la visione del mondo che le genera. Ciò che accomuna questo variegato mondo di esperienze, è un volontario e drammatico rifiuto della cultura cristiana,  e la scelta di cammini divergenti, ripercorrendo le antiche strade di riti sacrificali pagani,  riti magici o addirittura riti satanici. La magia, l’occulto, i riti collettivi e ancestrali, letti attraverso una certa teoria psicanalitica e  una certa antropologia culturale, sono non solo i temi preferiti da alcuni artisti e da alcuni movimenti, ma anche i luoghi culturali di una adesione personale ad essi.

Non sembra eccessivo concludere, che questi movimenti sono manifestazioni della apostasia della classe “dirigente” (che vuole cioè dirigere la cultura, la visione del mondo, la società) occidentale, che si autocelebra attraverso artisti legati a visioni del mondo altre e contro.

Rodolfo Papa, Esperto della XIII Assemblea Generale Ordinaria del Sinodo dei Vescovi, docente di Storia delle teorie estetiche, Pontificia Università Urbaniana, Artista, Accademico Ordinario Pontificio. Website: www.rodolfopapa.it  Blog: http://rodolfopapa.blogspot.com  e.mail:  rodolfo papa@infinito.it  .

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NOTE 

[1] R. Papa, Che cos’è l’arte povera?, pubblicato su Zenit il 30 gennaio 2012, http://www.zenit.org/it/articles/che-cosa-e-l-arte-povera

[2] Ho introdotto questa nozione nel mio libro R.Papa, Discorsi sull’arte sacra, Cantagalli, Siena 2012.

[3] Cfr. T. Andina, Filosofie dell’arte. Da Hegel a Danto, Carocci editore, Roma, 2012, pp.

[4] G. Dorfles, Ultime tendenze nell’arte d’oggi. Dall’Informale al Post-moderno, Feltrinelli, Milano 1985, pag.132.

[5] G. Roheim, Origine e funzione della cultura, Feltrinelli, Milano 1972, pag. 85.