Riprendiamo oggi la prima parte della relazione tenuta il 15 marzo scorso da monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, presso lo Studium Generale Marcianum di Venezia nell’ambito del convegno ”Il rinnovamento della Chiesa passa anche attraverso la testimonianza offerta dalla vita dei credenti”.
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Premessa
A leggere il titolo di questo mio intervento sono andate crescendo in me due domande. La prima: non è eccessivo mettere in relazione l’antropologia (pur se cristiana) con la salvezza? Il piano antropologico ha bisogno di salvezza, infatti, e quindi non può essere esso stesso a produrla. Giunge poi la seconda domanda: per salvezza del mondo intendiamo la salvezza del mondo “in quanto mondo”, ossia nella sua mondanità? Ma a questo livello, quello della mondanità del mondo, non può esserci salvezza, almeno nella pienezza di significato del termine.
Queste due domande, che immediatamente ci raggiungono appena letto il titolo, ci dicono che il livello in cui esso pone la questione non è l’ultimo livello, ma uno intermedio, che non può essere affrontato da solo, ma presuppone altro. La prima parte della frase – l’antropologia cristiana – presuppone Gesù Cristo, Creatore e Salvatore del mondo, e nella seconda parte – la salvezza del mondo – presuppone la ricapitolazione escatologica di tutte le cose in Cristo, fine della storia e del cosmo. Gesù Cristo sta quindi all’inizio e alla fine.
In altri termini, l’antropologia cristiana e la salvezza del mondo non possono essere poste in relazione tra loro in quanto tali, ma in riferimento ad un “di più” che il titolo non esprime ma che presuppone.
Il minimalismo cattolico
Mi sono attardato in questa premessa perché è in atto ormai da tempo un certo minimalismo cattolico, molto concentrato sull’uomo e sul mondo. La centralità assunta dall’antropologia ne è un esempio. L’intento è di far passare meglio l’annuncio cristiano nella società moderna e secolarizzata, incentrandolo appunto sull’uomo. L’esito però è spesso proprio l’opposto. Solo alcuni esempi. Dal minimalismo teologico deriva una specie di minimalismo antropologico, sicché quello che si voleva valorizzare – l’uomo – viene alla fine sminuito. Dal minimalismo mariano non è derivato granché in termini di autentica valorizzazione della donna. Dal minimalismo liturgico non è arrivato granché in termini di consapevolezza del significato del culto cattolico. Dal minimalismo epistemologico, con l’abbandono di un approccio metafisico alla verità1, sostituito da un apparentemente più umile approccio ermeneutico, non è derivata una ripresa della ricerca della verità quanto piuttosto una stanchezza e quasi una estenuazione nei confronti del vero. Per dirla in termini ancora più netti: mentre ci siamo concentrati sull’antropologia, nella cultura vissuta di oggi si è perso interesse per cosa significhi essere uomo, e non ce ne siamo accorti. Il concetto stesso di natura umana è non solo messo in discussione, ma in certi casi completamente messo da parte, sicché certi sviluppi dell’ideologia del gender per esempio portano direttamente alla perdita di ogni confine tra l’uomo, l’animale e la macchina, come hanno ben spiegato di recente i Vescovi spagnoli2. Mentre noi ci impegnavamo ad incontrare la libertà umana e a dialogare con essa, l’uomo perdeva interesse ad essere libero3.
Il Magistero ci segnala da tempo che la crisi della società contemporanea è in fondo una crisi “antropologica”4. Ora, la risposta ad una crisi antropologica non può essere antropologica. Scendendo al semplice livello antropologico si perdono di vista i veri motivi per cui l’antropologia è in crisi. Ogni realtà, diceva Romano Guardini, è sempre più di se stessa5. Quindi, aggiungo io, non può essere essa stessa né la causa né la soluzione di una sua crisi. La stessa presa di coscienza della crisi, per non parlare poi della sua soluzione, deve partire da un punto di vista diverso e più alto. Ecco perché a mio parere la crisi antropologica è in realtà una crisi teologica. Ed ecco perché alla crisi antropologica si potrà rispondere solo con la “centralità di Dio” piuttosto che con la centralità dell’uomo.
(La seconda parte verrà pubblicata mercoledì 20 marzo)
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NOTE
1 Se ne lamentava Giovanni Paolo II in Fides et ratio n. 61.
2 Cf Conferencia Episcopal Española, “La verdad del amor humano. Orientaciones sobre el amor conyugal, la ideología de género y la legislación familiar”, nn. 52-65.
3 Uno dei pensatori della modernità illuminista con cui la teologia cattolica ha avuto modo di discutere è senz’altro Jürgen Habermas. Massimo Borghesi valuta positivamente il notevole percorso fatto da Habermas, che è giunto ad affermare che il riconoscimento della natura è condizione per l’esercizio della libertà. Ma siamo sicuri, si chiede Borghesi, che oggi si sia ancora interessati ad essere liberi? Non è che gli esiti della modernità illuminista siano ormai sfuggiti di mano? Può essere che la modernità sia andata già oltre Habermas, oltre al dialogo sull’uomo e la sua libertà mostrando un sostanziale disinteresse per esso (Cf M. Borghesi, I presupposti naturali del poter-essere-se-stessi. La polarità natura-libertà di Jürgen Habermas, in F. Russo (a cura di), Natura cultura libertà, Armando, Roma 2010, pp. 65-98).
4 Benedetto XVI, Lett. Enc. Caritas in veritate, n. 75.
5 «Ogni essere è più che se stesso; ogni avvenimento significa più che non il suo stretto compiersi. Tutto si riferisce a qualcosa che sta al di sopra o al di là. E solo a partire da là riceve la sua pienezza. Se esso scompare le cose e le situazioni si svuotano di senso» (R. Guardini, La fine dell’epoca moderna, Morcelliana, Brescia 1993, p. 97).