Da qualche anno è stata avanzata l’ipotesi che il complesso romano dell’Acqua Claudia, situato a circa 4 chilometri dal lago di Bracciano nel territorio di Anguillara Sabazia, possa essere attribuito all’età augustea. Quest’ipotesi nasce sostanzialmente in seguito a due osservazioni: la prima riguarda la tecnica edilizia adottata, la seconda per il sistema di alimentazione dell’acqua. Alcuni studiosi infatti ritengono che la tecnica edilizia dell’opus quasi reticolatum (disposizione a file deicosiddetti cubilia formanti un reticolo irregolare)fin qui riconosciuta per la costruzione del complesso sia da datarsi alcuni decenni dopo rispetto a quanto inizialmente supposto (metà del I secolo a.C.). Se fosse vero questo abbasserebbe di quasi mezzo secolo la datazione del complesso, attribuendolo dunque all’età augustea. A suffragare tale teoria è la necessità di alimentare con l’uso di un grande quantitativo d’acqua i numerosi ninfei, fontane, giardini e zampilli d’acqua che si pensa decoravano l’intera villa. Secondo questa teoria, la presenza di un’unica cisterna circolare, rinvenuta a monte del complesso, confermerebbe che non era necessario avere numerosi serbatoi, in quanto da sola avrebbe funto da collettore per accogliere l’acqua proveniente da un ramo dell’acquedotto Alsietino costruito proprio da Augusto nel 2 a.C. ed alimentato dalle acque del lago di Martignano. La villa sarebbe dunque stata costruita o inaugurata in quell’anno o giù di li.
Quest’ipotesi avanzata da alcuni studiosi d’oltremanica però non tiene conto di alcuni dettagli, (anche alla luce delle recenti scoperte) i quali, se presi in considerazione, aprirebbero numerose falle su quanto ipotizzato.
Il primo elemento da analizzare è quello della tecnica edilizia su cui si basa principalmente la datazione del complesso: l’opus quasi reticolatum. Si asserisce infatti che tale tecnica è più vicina all’opus reticolatum rispetto all’opus incertum (altre due tecniche edilizie romane, rispettivamente più recente e più antica della prima) e che l’uso di ricorsi laterizi alternati ai ‘cubilia’ utilizzati per l’opus sia frequente soltanto a partire dall’epoca augustea. In realtà la tecnica dell’opus quasi reticolatum testimonia in svariate circostanze l’uso dei mattoni, particolare evidenziato in alcune domus campane ed edifici pubblici rinvenuti a Pompei e datati alla metà del I secolo a.C. (tardo-repubblicano). La presenza dunque di mattoni in alcune cornici e nelle semi-colonne addossate alle nicchie della fronte dell’esedra testimoniano il ripetersi di un elemento tipico per quest’epoca pre-imperiale. Inoltre l’uso del cubilium nel complesso dell’Acqua Claudia assume in particolare la forma di un cuneo tronco-conico (tipica della tarda età repubblicana, molto somigliante ai più noti ‘sanpietrini’) e cambia la sua forma solo a partire dalla prima età imperiale, assumendo l’aspetto di un cubo allungato. Che si tratti poi di una tecnica ‘imperfetta’ (quasi reticolatum) è testimoniato in quasi tutta la muratura scoperta che presenta i cubilia non in asse e con scarti di alcuni centimetri tra loro.
La presenza di due ninfei alle estremità della grandiosa esedra e di numerose nicchie frontali che ne movimentano l’aspetto hanno permesso di avanzare l’ipotesi che sarebbe stato necessario un abbondante quantitativo d’acqua per alimentarli. Il complesso infatti, dislocato su tre livelli, presenta sulla fronte la grande esedra delimitata dai ninfei e, nella parte retrostante ambienti, cortile interno, triclini ed impianto termale dislocati lungo il fianco della collina. La parte scenografica era indubbiamente quella dell’esedra scandita da nicchie decorate da semicolonne e a maggior ragione se ogni nicchia avesse avuto uno zampillo d’acqua che si immetteva all’interno di grossi vasi di terracotta (alcuni frammenti di tali oggetti sarebbero stati rinvenuti durante i primi scavi del 1934 contestualmente ad alcune tracce di malta idraulica rilevata sui muri delle nicchie) c’era dunque la necessità di avere a disposizione grandi quantitativi d’acqua. Questo farebbe dunque pensare che la grande cisterna circolare non avrebbe potuto alimentare i giochi e soltanto un braccio di un acquedotto (l’Alsietino) avrebbe potuto sopperire a questa mancanza. Ma è andata davvero cosi?
L’acquedotto dell’aqua Alsietina venne ultimato nel 2 a.C. con il preciso scopo di alimentare la naumachia dell’imperatore Augusto (battaglie navali che si svolgevano all’interno di un bacino artificiale) situata nella zona di Trastevere nel centro di Roma. Caratteristica fondamentale dell’aqua Alsietina è quella di essere impiegata esclusivamente per questo scopo o al massimo, come ci dicono le fonti, ad uso agricolo. Immaginare un ramo dell’acquedotto creato appositamente per rifornire una villa di campagna come quella dell’Acqua Claudia (piuttosto estesa ma di modeste dimensioni se paragonata alle ville suburbane) al solo scopo di alimentare le fontane (la non potabilità la rendeva praticamente inutilizzabile per altri scopi) risulta decisamente inconsueto.
I due ninfei posizionati alle estremità dell’esedra erano fontane il cui unico gioco d’acqua era rappresentato da una piccola cascata formata da alcuni gradini della larghezza di circa 60 cm. L’acqua proveniente da tre fistule (condotti in bronzo o in terracotta per il trasporto dell’acqua) era immessa all’interno di una vasca terminante con la piccola cascata che la immetteva all’interno di un’altra più piccola con funzione di spurgo. Non esistono prove tangibili che ciascuna nicchia formante l’esedra accogliesse giochi d’acqua. Non solo infatti non è stato ritrovato alcun impianto di adduzione e deduzione dell’acqua (mancano gli incassi delle fistule nei muri, i fori per la fuoriuscita dell’acqua e la canalizzazione di scarico) ma le poche tracce di malta idraulica (oggi totalmente scomparse) rinvenute ottant’anni fa non possono rappresentare una prova tangibile sull’uso ‘acquatico’ dell’esedra. In pratica non esiste nessun grande elemento architettonico strettamente legato all’acqua che possa giustificare l’uso di un intero ramo di un acquedotto, soprattutto alla luce del fatto che l’intero complesso è stato costruito al di sopra di una sorgente idrominerale che i romani conoscevano bene e sfruttavano già da tempo immemorabile. Durante i recenti scavi infatti sono tornate alla luce numerose fondazioni di un edificio precedente di almeno un secolo a quello attualmente visibile. Il ritrovamento inoltre di alcuni frammenti di bucchero (ceramica etrusca completamente nera risalente al V secolo a.C.) testimoniano una frequentazione dell’area decisamente più antica e legata alla presenza della ricca sorgente, in grado da sola e con l’ausilio di conserve d’acqua, di alimentare l’intero impianto, supportato dallo scavo di pozzi (uno di questi è ancora visibile ai lati del ninfeo occidentale).
Alla luce di quanto descritto sembra per lo meno arbitrario azzardare l’ipotesi della costruzione del complesso in funzione dell’acquedotto Alsietino, soprattutto per il fatto che l’area era frequentata almeno già quattro secoli prima. L’indagine dell’area retrostante la cisterna circolare, l’unica che avrebbe potuto presentare tracce dell’imbocco dell’acquedotto, non ha rilevato nessuna struttura muraria a questo riconducibile, tantomeno fratture nella muratura per l’inserimento di collettori per l’immissione dell’acqua. Siamo ben lungi dall’interpretare l’uso dell’acqua all’interno del complesso, comprese le modalità di sfruttamento della sorgente (quella antica deve essere ancora individuata) ma non esiste alcuna traccia che giustifichi la presenza di un ramo d’acquedotto. Le piccole cavità nel paleo suolo pozzolanico infatti, usate a supporto della teoria
, non presentano alcun elemento idraulico ne testimonianze per il trasporto dell’acqua.
In conclusione possiamo affermare che non soltanto le strutture murarie possano essere ricondotte ad una datazione non più alta del 40 a.C. (almeno per questa fase) ma non esiste ad oggi nessun elemento tangibile che possa far pensare ad un’alimentazione con un braccio dell’acquedotto Alsietino, ne tantomeno ad una datazione di epoca augustea.
Paolo Lorizzo è laureato in Studi Orientali e specializzato in Egittologia presso l’Università degli Studi di Roma de ‘La Sapienza’. Esercita la professione di archeologo.