Lo scorso 6 dicembre, nell’ambito della Fiera della piccola e media editoria di Roma Più Libri Più Liberi, è stato presentato il libro La Chiesa in trincea – I preti nella Grande Guerra edito da Salerno Editrice, opera del sacerdote don Bruno Bignami. Oggetto di approfondimento su diversi quotidiani nazionali in queste settimane, noi di ZENIT abbiamo chiesto all’autoredi tratteggiarci più dettagliatamente il contesto sociale all’interno del quale il mondo cattolico ed ecclesiastico si mosse prima, durante e immediatamente dopo la Prima Guerra Mondiale. Di seguito sette risposte che tracciano i segni della guerra nella vita delle famiglie, delle città e delle campagne, nonché del diverso sentimento avuto dai contadini o dai borghesi verso la guerra e, infine, come la Chiesa subì la lacerazione del conflitto.
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I cattolici di origine borghese erano schierati per la guerra, mentre in genere i ceti popolari e contadini subirono la guerra. Perché avvenne questo?
Bruno Bignami: La differenza di posizioni in ambito cattolico era frutto di sensibilità differenti. Chi viveva a diretto contatto con gli ambienti rurali poteva facilmente pronosticare che sarebbero stati i ceti deboli a pagare le conseguenze più devastanti della guerra. Basti pensare al fatto che le famiglie venivano depauperate dei figli negli anni della loro giovinezza: la morte di molti giovani contribuì a disgregare le famiglie dei braccianti impegnati nel lavoro agricolo.
Il ceto borghese, invece, si sentiva meno coinvolto e ragionava astrattamente, a differenza del ceto contadino che faceva i conti con la concretezza del vivere. E’ ciò che accade anche oggi, se ci pensiamo. Negli Stati Uniti, tra i senatori che votarono le missioni militari in Afghanistan o in Iraq, solo uno di loro aveva un figlio impegnato al fronte. La storia si ripete e insegna.
Durante la guerra cambiò il volto di molte città, aumentò anche la popolazione femminile che lavorava. Ci descriva come si viveva nelle città durante la guerra.
Bruno Bignami: Le città trasformarono le loro abitudini. Di giorno si vedeva la frenesia dei combattimenti, di notte il coprifuoco regalava un buio spettrale. Ciò accadeva soprattutto nelle zone a ridosso del fronte. La gente rimaneva chiusa in casa. Per le strade non era difficile incontrare donne intente a recapitare la posta, servire ai tavoli dei caffè e guidare i tramvai in sostituzione degli uomini al fronte. Le donne furono impegnate al funzionamento della vita ordinaria nelle città, caricandosi sulle spalle la ferialità del vivere.
Perché i cattolici meridionali non potevano aderire a cuor leggero alla decisione di entrare in guerra?
Bruno Bignami: I cattolici meridionali non erano affatto entusiasti dell’intervento italiano, almeno inizialmente. Le condizioni economico-sociali del sud, i bisogni delle classi povere, la permanente povertà delle classi rurali, la sottrazione di braccia al lavoro dei campi facevano propendere per un coerente neutralismo. Tuttavia, la scelta dell’intervento, il 24 maggio 1915, chiese a ciascuno di non sottrarsi. La posizione più diffusa divenne la seguente: contro la guerra, ma non contro la patria.
Il ruolo delle donne e i cosiddetti “figli della guerra”. Cosa avvenne e come si adoperò la chiesa e poi, quale fu il ruolo delle donne contro la guerra?
Bruno Bignami: Il dramma dei cosiddetti “figli della guerra” fu emblematico durante “l’inutile strage”. Il prete friulano don Celso Costantini, che poi diventerà missionario e cardinale, si fece carico di affrontare il problema dei bambini nati durante il conflitto mentre il padre era combattente, ignaro che la moglie potesse averlo tradito. Si poneva anche il caso dei figli nati da violenza carnale da parte del nemico. Per non alterare gli equilibri e la pace familiare don Costantini istituì l’Ospizio dei figli della guerra, con la collaborazione delle suore della Carità, fondate nell’Ottocento da Bartolomea Capitanio. Il figlio del nemico o il figlio del peccato, bambini considerati “intrusi”, furono accolti in un istituto dove potessero incontrare la pietà cristiana e umana.
Il ruolo delle donne nel conflitto fu importante. Erano le prime a pagare le conseguenze della guerra, non ultimo l’assenza dei mariti nella vita familiare. Per questo in pianura padana intrapresero azioni dimostrative. A Busto Arsizio e nel circondario, in diocesi di Milano, si ebbero manifestazioni di operaie iscritte ad associazioni cattoliche. Il fatto più eclatante fu tuttavia la due giorni milanese (1-2 maggio 1917), quando gruppi di donne provenienti dalla campagna si organizzarono, percorsero le strade della circonvallazione e scagliarono sassi contro le fabbriche di armi. Al grido di “abbasso la guerra” costrinsero gli operai ad abbandonare il lavoro e percorsero le vie di Milano.
Anche Don Primo Mazzolari ha ritenuto che il conflitto potesse rappresentare un momento catartico. Un momento per purificare le coscienze. Perché?
Bruno Bignami: Don Primo Mazzolari era convinto, come altri cattolici, che questa poteva essere «l’ultima guerra», di breve durata, necessaria per far piazza pulita di tutto ciò che allontanava dal vangelo. La guerra sembrava la soluzione immediata a un problema che l’umanità rimandava da tempo: la purificazione del cuore dell’uomo da ogni egoismo. Si trattava evidentemente di una concezione utopica del conflitto, slegata dalla realtà e tuttavia diffusa nel cattolicesimo italiano. L’idea semplificava ingenuamente la situazione: la guerra avrebbe fatto tabula rasa di tanti egoismi e riportato la fraternità nei rapporti tra le persone.
Gli stessi cappellani militare interpretarono la nota del 1 agosto 1917 (dove Benedetto XVI definì la guerra una “inutile strage”) come qualcosa di mutevole e di contingente. Perché?
Bruno Bignami: Più che altro i cappellani militari dovettero subire l’incomprensione che la Nota ebbe negli ambienti militari. In Italia le accuse a Benedetto XV furono durissime: come minimo lo si accusò di essere austrofilo. Qualcuno sentì pronunciare minacce rivolte al papa perché nel momento clou in cui bisognava rinserrare le fila, la Nota appariva sposare toni disfattistici. Così i cappellani militari dovettero mediare, anche se molti si erano resi conto in prima persona da molto tempo che la definizione di “inutile strage” era giusta e calzava a pennello nella circostanza di una guerra di trincea.
Molti preti subirono dei procedimenti penali durante la guerra (circa 500). Quali furono le motivazioni di questi procedimenti?
Bruno Bignami: Normalmente i preti vivevano a diretto contatto con la gente e ne assumevano gli umori e le sensibilità. Molti di loro compresero che la pace doveva essere invocata come dono da raggiungere il più presto possibile per evitare peggioramenti delle condizioni sociali, economiche e morali della gente. Vi fu un periodo, soprattutto dopo il Decreto Sacchi, promulgato il 4 ottobre 1917 con l’intento di reprimere “fatti pregiudizievoli all’interesse nazionale”, in cui i sospetti sul clero si fecero più numerosi. Il decreto diede il via a una vera e propria caccia alle streghe e molti preti finirono nel mirino, perché predicavano la pace e invocavano la fine del conflitto. L’accusa era sempre la stessa: disfattismo, antipatriottismo… I procedimenti penali ne erano la logica conseguenza.
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NOTE
1) Bruno Bignami insegna Teologia Morale a Crema, Cremona, Lodi e Mantova ed è presidente della Fondazione “don Primo Mazzolar
i” di Bozzolo.
2) Per una recensione del libro cliccare sull’edizione di ZENIT del 27 dicembre 2014