ROMA, lunedì, 28 febbraio 2011 (ZENIT.org).- Gli Atti degli Apostoli raccontano che uno dei primi convertiti al Cristianesimo è stato un etiope. Già nel quarto secolo l’Etiopia aveva adottato la fede cattolica come religione ufficiale; uno dei primo Paesi ad averlo fatto. Oggi, tuttavia, i cattolici sono meno dell’1% della popolazione. Ma nonostante l’esiguo numero gestiscono ben il 90% dei programmi sociali del Paese.
In questa intervista rilasciata al programma televisivo “Where God Weeps”, realizzato da Catholic Radio and Television Network (CRTN), in collaborazione con Aiuto alla Chiesa che soffre, il Vescovo Rodrigo Mejía Saldarriaga, Vicario apostolico di Soddo-Hosanna, spiega qual è il lavoro portato avanti dalla Chiesa.
Lei è nato, cresciuto ed è stato ordinato in Colombia. Come mai si trova in Europa?
Mons. Mejía: Sono arrivato in Africa nel 1963. Non in Etiopia, ma in Congo, all’epoca in cui era ancora annesso al Belgio, dove ho lavorato per circa 20 anni. Poi mi sono trasferito in Kenya dove sono stato missionario per 14 anni e ora sono più di 10 anni che mi trovo in Etiopia.
Qual è la cosa più difficile a cui si è dovuto adattare quando è arrivato in Africa?
Mons. Mejía: Direi che la sfida più grande è stata quella di adattarsi a due mentalità allo stesso tempo: quella africana da un lato e quella dei missionari europei dall’altra, perché ero praticamente l’unico dell’America latina e dovevo lavorare con gli europei, per gli africani.
Come descriverebbe la mentalità africana?
Mons. Mejía: La gente africana è aperta, allegra e diretta nel comunicare. È facile capire cosa pensa un africano. Gli europei, invece, sono più riservati e sono orientati più dalla testa che dal cuore.
Avendo vissuto in così tanti Paesi diversi, cosa trova di originale nella fede degli etiopi?
Mons. Mejía: Il Cristianesimo in Etiopia è fortemente segnato dalla tradizione ebraica, perché in Etiopia, prima del Cristianesimo, c’è stata una presenza ebraica. E ancora oggi vi sono tradizioni e usanze che risalgono all’Antico Testamento. Per esempio, non mangiano maiale e digiunano due volte a settimana.
Qual è il panorama religioso nell’Etiopia odierna?
Mons. Mejía: L’Etiopia è il più antico Paese cristiano e quello più convintamente cristiano di tutta l’Africa. Il 45% è ortodosso, il 4-5% è protestante, circa il 30% è musulmano e il restante appartiene alle religioni africane tradizionali. Questa è, grosso modo, la composizione religiosa del Paese.
Sebbene i cattolici rappresentino meno dell’1% della popolazione, la Chiesa cattolica gestisce più del 90% dei programmi sociali in Etiopia. Come è stato possibile?
Mons. Mejía: Credo che questo sia dovuto al generale orientamento della Chiesa cattolica alle missioni: e cioè al fatto che non andiamo ad evangelizzare solo le anime, come in passato, ma le persone. L’Etiopia è un Paese molto povero, con grandi carenze sociali, nel campo dell’istruzione e della sanità.
Di che tipo di povertà si tratta? Qual è il salario medio?
Mons. Mejía: Secondo l’indice di sviluppo umano elaborato dalle Nazioni Unite, l’Etiopia è il quarto Paese più povero al mondo, con carenze nell’istruzione, nell’alimentazione e nell’occupazione. La popolazione ammonta a più di 70 milioni di persone, il che rende l’Etiopia il secondo Paese più popoloso dell’Africa, dopo la Nigeria.
Ma non è un Paese povero di risorse agricole: ne ha in abbondanza ed è ricco di minerali. Perché non è in grado di svilupparsi?
Mons. Mejía: La terra è buona, è vero, ma l’agricoltura è gestita in modo molto, molto tradizionale. È una sorta di agricoltura di sussistenza. L’Etiopia è il Paese più montuoso dell’Africa e quindi dipende molto dall’acqua piovana. La siccità è infatti un dramma per i contadini.
Che tipo di programmi ha messo in atto la Chiesa?
Mons. Mejía: La Chiesa cattolica è riconosciuta per le sue istituzioni scolastiche, dall’asilo alla scuola secondaria e, più di recente, esiste un progetto per avviare una università cattolica nella capitale ed eventualmente nelle altre città, con diversi campus. La Chiesa cattolica è nota per il suo impegno nell’educazione perché siamo convinti che l’istruzione sia il primo passo per uscire dalla povertà.
I cristiani rappresentano il 45% della popolazione, ma esiste anche un buon numero di musulmani. Cosa pensano i musulmani del lavoro della Chiesa e della sua forte presenza, soprattutto in relazione a questo tipo di programmi?
Mons. Mejía: Storicamente l’Etiopia è sempre stata considerata – anche agli albori dell’Islam – un Paese cristiano in Africa, e loro lo hanno accettato. Durante la persecuzione contro i musulmani, e anche ai tempi di Maometto, l’Etiopia accoglieva i musulmani come rifugiati. Sin da allora, i musulmani sono stati fedeli alla promessa di rispettare l’Etiopia. È una tradizione, una tradizione orale, che vige ancora oggi.
I cristiani e i musulmani lavorano insieme in questo modo anche per il bene del Paese?
Mons. Mejía: Generalmente, sì. I musulmani non sono aggressivi e sono rispettosi. E le nostre istituzioni sociali sono aperte a tutti: ortodossi, musulmani e africani di diverse religioni.
Per esempio, nelle scuole, qual è la percentuale di studenti musulmani?
Mons. Mejía: Non ho i dati precisi. Con i più piccoli, i musulmani hanno avviato le proprie scuole coraniche. Nelle nostre scuole secondarie, direi che il 10-15% è musulmano.
Lei vede nel panorama politico delle ripercussioni dovute a questo aspetto? Ovvero, che i musulmani, essendo passati attraverso un’educazione cattolica, sono più aperti al Cristianesimo, non per convertirsi, ma certamente per collaborare insieme?
Mons. Mejía: Questo è un punto interessante, perché anche se abbiamo istituzioni cattoliche, non le utilizziamo per l’educazione cattolica in quanto tale. Almeno esplicitamente. La religione non è neanche insegnata nelle nostre scuole cattoliche.
Non vi è permesso?
Mons. Mejía: No, insegniamo religione ai cattolici delle nostre scuole, ma al di fuori del tempo scolastico e del programma scolastico, e dobbiamo seguire il programma ufficiale prescritto dal Paese.
Lei è Vescovo della diocesi di Soddo-Hosanna. Qual è per lei la sfida più grande come pastore di questa diocesi?
Mons. Mejía: La sfida più immediata è quella della siccità. Dopo essere stato nominato, abbiamo avuto cinque mesi senza pioggia. La terra è buona ma queste persone vivono sempre al livello di sussistenza e di povertà. Quando arriva una siccità come questa, sono costretti a mangiare i semi e quindi in quei momenti non hanno nulla da mangiare. Questa è la povertà vera e questa siccità è stata una delle prime sfide che ho dovuto affrontare.
Qual è l’impegno della Chiesa in questo ambito? Collabora con gli aiuti alimentari?
Mons. Mejía: Anzitutto dobbiamo lavorare con il governo locale ed essere in sintonia con loro: chiedere autorizzazioni ufficiali per importare cibo e per distribuirlo. Poi possiamo contare con la generosità della gente all’estero da cui riceviamo cibo o denaro per comprare cibo localmente. Talvolta la siccità è molto localizzata ed esiste cibo nelle altre parti del Paese. In questi casi non dobbiamo importarlo dall’estero.
Che appello si sente di fare ai cattolici sparsi nel mondo, in qualità di pastore di questa diocesi e per l’Etiopia in generale?
Mons. Mejía: L’appello più ovvio è quello di essere sensibili e di conoscere l’Etiopia molto meglio, perché sembra che l’Etiopia appaia in TV e sulla radio solo quando vi sono dei problemi: quando vi è una carestia o quando ci sono guerre e conflitti, cosa che purtroppo tende a dare un’immagine negati
va dell’Etiopia. Questo è invece un Paese fantastico, che offre una varietà di culture ed è un luogo molto bello con tante cose da contemplare e ammirare.
Per i cristiani, la parola chiave è solidarietà. Solidarietà con gli etiopi, nella loro sofferenza e nella loro povertà, perché sentiamo che dopo la Guerra fredda e il crollo del Muro di Berlino, l’Europa sia più orientata verso l’Est europeo, dove vi sono nuovo mercati in cui investire, mentre l’Africa in generale e l’Etiopia vengono dimenticati.
Sul piano pastorale, quali sono le sue necessità quotidiane?
Mons. Mejía: Nel nostro vicariato abbiamo 34 asili che appartengono alla Chiesa cattolica. Questi asili non godono di rette scolastiche da parte dei bambini o delle famiglie. E oltre all’istruzione, gli forniamo anche una piccola porzione di cibo ogni giorno a metà mattinata.
Questo è l’unico pasto che ricevono?
Mons. Mejía: Praticamente, sì. Se non diamo questo pasto, gli insegnanti vedono che i bimbi si addormentano e sono molto affamati. Quindi è un grande servizio e i genitori mandano i figli all’asilo non tanto per l’educazione che ricevono ma per il cibo. Abbiamo quindi bisogno di sostegno per mantenere questi istituti e talvolta i nostri benefattori ci dicono: “vi aiutiamo all’inizio ma non per le spese correnti”. Sembra molto logico che un istituto debba essere autosufficiente, ma nel nostro contesto è molto, molto difficile, anche se cerchiamo di sensibilizzare la gente perché diano il loro contributo localmente. E lo fanno per quanto possono, ma le difficoltà restano.
————-
Questa intervista è stata condotta da Mark Riedemann per “Where God Weeps”, un programma televisivo e radiofonico settimanale, prodotto da Catholic Radio and Television Network in collaborazione con l’organizzazione internazionale Aiuto alla Chiesa che soffre.
Where God Weeps: www.WhereGodWeeps.org
Aiuto alla Chiesa che soffre: www.acn-intl.org