“La ‘globalizzazione dell’indifferenza’ ci ha tolto la capacità di piangere… la cultura del benessere rende insensibili alle grida degli altri… ma Dio chiede a ciascuno di noi: ‘Dov’è il sangue del tuo fratello che grida fino a me?'”.
Quante volte Papa Francesco ci ha parlato così… ma non sarà che ogni volta che i media ci riportano la notizia di una bomba che ha ucciso tante persone, esplosa in Afghanistan, o davanti alla tragedia dei cristiani perseguitati in Iraq, Siria, Nigeria, Niger, Pakistan, davanti allo sterminio dei bambini, davanti alla povertà che avanza, davanti all’antisemitismo che ritorna, sentiamo sì tristezza e dispiacere per le vittime, ma, in fondo, restiamo spettatori passivi e la notizia di un dolore così lontano da noi finisce per scivolarci fuggevolmente addosso?
Mi viene in mente, per averla più volte letta e studiata, una tesi di laurea sull’empatia. L’autrice è santa Edith Stein e il relatore della tesi non è un nome qualunque dell’Università di Friburgo: si tratta infatti del padre della fenomenologia, Edmund Husserl, del quale la Stein era l’assistente. Questa grande santa tedesca, filosofa, patrona d’Europa, è universalmente riconosciuta come la donna che in assoluto è stata protagonista storica, culturale ed ecclesiale del novecento, coinvolta in pieno, nella sua stessa vita e morte, avvenuta nel campo di concentramento di Auschwitz, al susseguirsi della tragica storia del “secolo breve”.
Stein scrive la sua tesi di laurea nel 1916, un’epoca in cui per le donne (e per giunta per una donna ebrea!) era impresa ardua, se non impossibile, scalare le vette della carriera universitaria: già durante gli anni universitari cominciò a dedicarsi a temi e attività che riguardavano l’emancipazione delle donne, entrando a far parte dell’Associazione Prussiana per il Diritto Femminile al Voto e occupandosi anche del ruolo nella società della nascente figura della donna lavoratrice.
Non mi dilungherò a tracciare la seppur affascinante biografia di Edith, che invito tutti a leggere per gustarne, come in un’oasi dello spirito, la “ricerca della di verità” tanto a lei cara: è soltanto il tema dell’empatia che voglio richiamare, perché le parole del Papa me ne riportano la freschezza dell’attualità. Un’attualità sconcertante, se pensiamo che Edith Stein ha dato una definizione molto esauriente dell’empatia, descrivendola come “il sentire per gli altri rimanendo se stessi”: vivere nei sentimenti dell’altro per giungere ad un comune sentire, facendo propria la gioia, la sofferenza, la speranza di chi ci è accanto. Perché senza comunità, il fine ultimo dell’uomo, la sua realizzazione, non è raggiungibile.
E oggi gli studi scientifici sostengono che le donne sono geneticamente più predisposte e capaci di empatia nei confronti degli altri esseri umani rispetto agli uomini, e questo è in parte spiegabile in considerazione del ruolo materno affidato alle donne, che le spinge a prendersi cura dei loro piccoli e a prestare la massima attenzione ai loro segnali comunicativi, anche non verbali.
La Stein dimostra, lavorando su questo tema, quale sia il suo interesse dominante: la persona umana all’interno del suo imprescindibile legame con la dimensione sociale, perché il problema che la sollecitava di più era chiarire la possibilità di comprensione tra le persone. “Quando prendiamo il nostro io come assoluto criterio, allora ci chiudiamo nella prigione della nostra particolarità: gli altri diventano degli enigmi per noi o, cosa ancora peggiore, li modelliamo secondo la nostra immagine e falsiamo la verità storica”.
Stein riassume questa intuizione quando afferma che l’empatia è “rendersi conto” di ciò che accade all’altro, è “amore per l’altro” che rende possibile l’incontro “da persona a persona”. Così, tornando alle parole del Papa sul “pianto” dinanzi alle disgrazie altrui, una bomba in Nigeria o a Baghdad non è meno grave di una bomba in Italia, a Madrid o sotto casa nostra. È ovvio che ci faccia meno paura, perché è l’istinto di autoconservazione che entra in allerta quando il pericolo è percepito come più vicino. Ma, razionalmente, dobbiamo chiederci perché quelle bombe scoppiano. E sapere che quei morti sono pianti con lo stesso smarrimento e la stessa rabbia, la stessa disperazione che sarebbe anche la nostra.
Soltanto l’empatia può farci davvero capire che ogni vita è unica e che ogni morte provocata con violenza non è un semplice numero che si aggiunge a un mucchio di indistinti, ma significa l’annientamento di un mondo prezioso. E tutto questo non ha forse a che fare con il “farsi prossimo” evangelico, che prende forma nella varietà dei sentimenti di partecipazione e condivisione, ma anche nei comportamenti, nel concreto, nell’impegno di ciascuno per la giustizia e per la pace?
Approfondire la conoscenza della figura singolare di Edith Stein può regalarci luce per una migliore comprensione della vita come relazione empatica e amore tra le persone, e da ciò non potremo che essere tutti beneficiati, per la costruzione di una vera “civiltà dell’amore”.