L’etica è al di là del bene e del male convenzionali, essa non è riducibile all’osservanza o alla disobbedienza a regole estrinseche stabilite da un’autorità. Detto altrimenti, bene e male non sono semplici categorie legali, essi hanno – devono avere! – un senso vitale. È questo l’orientamento che guida l’opera giovanile di Christos Yannaras, La libertà dell’ethos, edita da Qiqajon.
La presa di posizione di Yannaras non nasce da un lassismo morale soggettivistico. Il punto focale della sua critica è altro: «Se accettiamo – scrive – l’ethos solo come conformità dell’uomo con le norme stabilite autoritariamente o convenzionalmente, allora l’etica diviene l’alibi dell’uomo per sottrarsi al suo problema esistenziale; allora l’etica, sia essa religiosa, filosofica o politica, diviene un rifugio per l’uomo che sotto finalità oggettive ideali e mitizzate nasconde la tragicità della sua mortale esistenza biologica indossando una maschera di comportamento che prende in prestito da autorità ideologiche o partitiche per salvarsi dal suo essere stesso e dalle domande gli pone» (19).
La chiamata
A partire dal nome divino di Es 3,14 la fede giudeo-cristiana non identifica l’essere Dio con una natura anonima (seppur divina), ma innanzitutto in una persona, la persona di Dio Padre che si fa prossimo all’uomo. Si opera quindi un’identificazione dell’essere con «la libertà dell’amore – l’amore che dà ipostasi all’essere» (23) rivelando la verità dell’ethos come equivalente della verità dell’essere. Così l’uomo, immagine di Dio, trova la verità del suo ethos nel vivere secondo Dio. Egli, infatti, è stato creato «per comunicare al modo personale di esistenza, cioè alla vita di Dio, e per partecipare alla libertà dell’amore che è la “vera vita”» (25). In una parola, l’ethos umano si radica nella vita trinitaria e nell’imitazione del Dio trino. La Trinità è il presupposto ontologico dell’ethos cristiano.
La caduta
In questa prospettiva ortodossa, la caduta dell’uomo non è altro che un «volontario ritirarsi dalla possibilità di partecipazione alla vera vita, cioè alla relazione personale e alla comunione di amore, una possibilità per l’uomo di esistere come ipostasi di alterità personale» (35). Rifiutando la comunione, l’uomo si preclude la possibilità di pienezza. È la scelta di chi fa dell’opportunità un ostacolo: «Il mio peccato originale è l’esistenza dell’altro» (J.-P. Sartre). L’altro diventa inferno perché diviene «l’accertamento del mio insuccesso esistenziale, della mia impotenza a trascendere quel volere naturale che si è identificato con l’autodifesa dell’io biologico e psicologico. L’“altro” è l’inferno perché mi rivela tormentosamente la tragica condanna della mia individualità indipendente, l’impotenza a esistere libero dalle determinazioni naturali come amato e come amante» (39).
In questo senso l’inferno non è una condanna arbitraria escatologia, ma una scelta libera attuale consistente nel rinchiudersi tortuoso alla comunione. È «il volontario rifiuto della comunione con la divina bontà amante, con la vera vita» (40). Il peccato, dal canto suo, è «insuccesso nei confronti dell’esistenza e della vita; è l’insuccesso delle persone nel realizzare il loro fine esistenziale, nel confermare e nel conservare l’unicità della loro ipostasi con l’amore» (41).
Il giudizio
Peccare è innanzitutto arrendersi a una specie di inesistenza. Dio è giudice nella sua essenza. Il giudizio è il suo stesso atto d’essere, la sua verità che manifesta la verità stessa della creazione. Dio è la possibilità di vita e di esistenza vera. Quando l’uomo recide il rapporto con questa possibilità esistenziale, automaticamente è giudicato perché si è giudicato indegno della pienezza di vita.
Dato che l’uomo è plasmato a immagine di Dio, la presenza di Dio è de facto critica e criterio dell’esistenza umana. «Commettendo il peccato l’uomo “è già giudicato”: “Questo poi è il giudizio, che gli uomini hanno amato le tenebre più della luce” (Gv 3,18-19)». Il peccato, in breve, è autocondanna e autopunizione. È abbracciare la frammentazione e sposare la solitudine. In questo senso l’etica cristiana è “al di là del bene e del male” nel senso che «si riferisce a realtà ontologiche e non a categorie assiologiche» (44).
Rinascita
L’uomo rinasce in Cristo, supera la spinta autodistruttiva, quando converte e fa convergere la sua libertà nell’amore folle di Cristo per la sua persona. È dire sì al sì di Dio. «Ciò che Dio vuole dall’uomo esistenzialmente alienato e annientato è un tentativo anche piccolissimo di rifiutare la sua autosufficienza individuale e di contrastare gli impulsi della sua chiusa individualità per voler vivere come amato e amante» (65).
Questa dimensione comunionale verticale si apre naturalmente a una comunione orizzontale, a un ethos liturgico. La Chiesa ortodossa sottolinea, come la Chiesa cattolica, la necessità delle buone opere come esplicitazione della verità implicita nella prassi-realità della vita. Le buone opere sono manifestazione della vita in Dio, sono rivelative della verità ipostatica. Per il suo volto liturgico, «l’etica della chiesa si trova agli antipodi di ogni etica filosofica, sociale e religiosa, perché essa rifiuta la virtù individuale, il successo privato, la considerazione assiologica dell’individuo». Non si è cristiani per la propria virtù. Lo si è per il dono della grazia e per diventare dono grazioso.
Divinizzazione
L’ethos liturgico si traduce in ethos cosmico ed ecologico e si “consumma” nella liturgia eucaristica dove la chiesa torna «all’uso personale del mondo». Nell’eucaristia si assume il mondo, lo si benedice, si ringrazia per esso e lo si fa diventare grazie e grazia. La transustanziazione effettuata accoglie Dio nel cuore del mondo e il mondo nel cuore di Dio.
È la primizia della divinizzazione: «L’assunzione della carne del mondo da parte di Cristo, la trasformazione del pane e del vino in corpo e sangue del Dio incarnato è la primizia dinamica della trasformazione di tutto l’uso del mondo, della relazione universale dell’uomo con il creato. L’uomo ha ora la possibilità di assumere il mondo entro una relazione personale eucaristica con Dio, la possibilità di trasfigurare quest’assunzione in offerta di restituzione del mondo a Dio e di utilizzare il mondo come materiale che può donare carne a colui che è senza carne e contenere colui che non può essere contenuto» (116).