Francesco ai consacrati: "Alcune suore isteriche, però grazie perché avete un cuore d'amore"

Nell’udienza in Aula Paolo VI, il Papa mette in guardia dai pericoli di rigidità, narcisismo e “cultura del provvisorio”, esortando a custodire invece “profezia, memoria, vicinanza, zelo”

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Erano in 5mila i giovani consacrati e consacrate che affollavano stamane l’Aula Paolo VI per l’udienza con Papa Francesco, culmine dell’Incontro mondiale avviato ieri con la suggestiva veglia in piazza San Pietro. Accolto da un fragoroso calore e interrotto da continui applausi, Francesco, come sempre con i religiosi, cestina il discorso preparato e parla per circa 40 minuti a braccio, in risposta a tre domande dei giovani consacrati Pierre, Sara e Marie Iacinta.

40 minuti durante i quali il Papa ripropone i tipici inviti alla festa, alla preghiera e alla vicinanza alla gente, senza risparmiare alcune ‘bacchettate’ e frecciatine. Come quella sul “narcisismo”, uno dei “peggiori atteggiamenti di un religioso”, redarguisce il Pontefice. Ovvero il “guardare sé stessi”, il “rispecchiarsi in sé stesso”. “Bisogna guardarsi da questo”, ammonisce, perché “noi viviamo in una cultura narcisista” e “sempre abbiamo questa tensione a rispecchiarci”. 

Antidoto a questa tendenza è l’adorazione silenziosa, il “contrario del narcisismo” perché “svuota da sé stessi”, afferma. E, senza giri di parole, domanda: “Noi adoriamo il Signore? Tu, religioso, religiosa, hai la capacità di adorare il Signore?”. L’invito è quindi ad essere “donne e uomini di adorazione”, perché solo così è possibile stabilire un solido e diretto rapporto con Dio e, anche, “imparare a raccontare la propria vita” davanti a Lui.  

Dopo l’adorazione, c’è la festa. Un istinto naturale, perché “quando ricordi le meraviglie che il Signore ha fatto nella tua vita, ti viene di fare festa, ti viene quel sorriso da orecchio a orecchio, ed è bello, perché il Signore è fedele”, osserva Bergoglio. Mette in guardia poi dal rischio della “comodità” nel loro stile di vita, come pure dalla mancanza di carità che porta ad una “incapacità  di perdono”. “Dico una parola un po’ difficile e vi parlo sinceramente uno dei peccati che spesso troviamo nella vita comunitaria è l’incapacità di perdono. ‘Questo me la pagherà, gliela farò pagare, questo è sporcare l’altro'”. 

Da lì partono le chiacchiere, che in una comunità hanno l’effetto di un attacco terroristico. “Chi chiacchiera – chiarisce il Vescovo di Roma – butta una bomba sulla fama dell’altro e distrugge l’altro che non può difendersi. Così accade che il religioso che ha consacrato la sua vita a Dio diventa terrorista perché butta nella sua comunità una bomba che distrugge…”. 

Attenzione allora a mantenere l’armonia, senza scadere nel pettegolezzo ma neanche nella “osservanza rigida e strutturata, quella che toglie la libertà”. La stessa che Santa Teresa di Lisieux criticava fortemente: lei che “era una donna libera, tanto libera che è dovuta andare all’Inquisizione”, scherza Bergoglio, chiarendo che “c’è una libertà che viene dallo Spirito e una che viene dalla mondanità”. Bisogna saper distinguere l’una dall’altra, perché c’è un “modo profetico della libertà”, che si unisce “alla testimonianza e alla fedeltà”, ed una libertà che provoca danni.   “Una mamma che educa nella rigidità, non lascia sognare i figli”, rimarca.

A proposito di maternità, col solito piglio ironico, Francesco si rivolge alle suore, e dice: “Perdonatemi se sono un po’ femminista ma dovrei ringraziare la testimonianza delle donne consacrate. Ma non tutte eh… Ci sono anche alcune un po’ isteriche, ma voglio ringraziare la testimonianza, perché avete questa voglia di andare in prima linea, perché siete madri, avete questa ‘maternalità’ che fa vicina la Chiesa”.

Il Papa parla pure di “profezia” quale “capacità di sognare”, quindi “il contrario della rigidità”: “I rigidi non possono sognare”, sottolinea. Questo atteggiamento profetico deve rispecchiarsi nella propria “testimonianza”, insieme allo “zelo apostolico che brucia il cuore”. “Evangelizzare – spiega infatti – non è lo stesso che fare proselitismo: noi non siamo un’associazione di calcio che cerca aderenti e soci. Evangelizzare non è soltanto convincere ma testimoniare: tu potrai studiare e fare corsi di evangelizzazione, ma la capacità di riscaldare i cuori non viene dai libri che leggi ma dal tuo cuore”. Tutto questo, la gente deve vederlo limpidamente nei consacrati. E anche deve assaporare una “vicinanza” da parte loro, “alla vita, ai problemi”.

Nell’ampio discorso c’è spazio anche per qualche ricordo personale. Sollecitato dalla domanda di una religiosa sulle sorgenti della sua vocazione, Bergoglio torna con la memoria a quel 21 settembre 1953, in cui sentì la “prima chiamata”. “Non so come è stato – racconta – so che per caso sono entrato in una Chiesa, ho visto un confessionale e sono uscito differente: la vita mi è cambiata”. 

Quel giorno, prosegue, “ho sentito la chiamata di farmi sacerdote e religioso. Quel sacerdote era lì per caso, aveva la leucemia e un anno dopo è morto. Poi mi ha guidato un salesiano che mi aveva battezzato e lui mi ha guidato dai gesuiti: ecumenismo religioso!”. “Cosa mi ha affascinato di più del Vangelo?”, si domanda ancora Francesco. Probabilmente “la sua vicinanza a me”, perché “il Signore – afferma – mai mi ha lasciato solo, pure nei momenti oscuri, pure nei momenti dei peccati”. 

Proprio questa è la chiave: scoprire l’amore di Dio anche nella più profonda miseria. “Dobbiamo dire che siamo tutti peccatori”, non solo “in teoria” ma “in pratica”, insiste il Pontefice. “Io ricordo i miei peccati e mi vergogno, ma pure in quei momenti il Signore non mi ha mai lasciato solo, non solo a me, a tutto: a ognuno non lascia mai il Signore”.  “Nei momenti più brutti – aggiunge – a me ha aiutato la memoria di quel primo incontro, perché il Signore ci incontra sempre definitivamente”.

È fondamentale pertanto tutelare la “memoria della propria vocazione”, che è un po’ come quella del primo amore: “Nei momenti della tentazione, delle difficoltà della vita consacrata bisogna tornare alle fonti – esorta il Santo Padre – fare memoria e ricordare lo stupore che abbiamo sentito quando il Signore ci ha guardato. Il Signore ci ha guardato, il Signore mi ha guardato, il Signore mi ama”.   

Quindi sì a “profezia, memoria, vicinanza, cuore che brucia di zelo apostolico”, rimarca il Santo Padre, riassumendo la sua conversazione. No, invece, alla “cultura del definitivo”, all’“usa e getta”, perché “il Signore non c’entra con la cultura del provvisorio, lui ci ama sempre”. 

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Salvatore Cernuzio

Crotone, Italia Laurea triennale in Scienze della comunicazione, informazione e marketing e Laurea specialistica in Editoria e Giornalismo presso l'Università LUMSA di Roma. Radio Vaticana. Roma Sette. "Ecclesia in Urbe". Ufficio Comunicazioni sociali del Vicariato di Roma. Secondo classificato nella categoria Giovani della II edizione del Premio Giuseppe De Carli per l'informazione religiosa

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