Niente più obbligo di “doppia sentenza conforme” ma sarà ancora consentito un secondo grado processuale. La gratuità assoluta per i ricorrenti non è assicurata ma le conferenze episcopali dovranno impegnarsi per permetterla. Quanto al Vescovo, egli è proclamato “giudice” nella sua diocesi ma, di fatto, egli può costituire un tribunale, con relativi aiutanti, anche laici.
Il motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus, promulgato la scorsa settimana da papa Francesco, a disciplina delle nuove procedure di nullità del matrimonio sacramentale, lungi dall’essere una rivoluzione, si pone per quello che è, ovvero una prudente riforma.
I contenuti del motu proprio sono stati analizzati, in un’intervista esclusiva con Zenit, dal professor Andrea Bettetini, ordinario di diritto canonico all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Prof. Bettetini, quali sono le novità più rilevanti che papa Francesco ha sancito per i processi di nullità matrimoniale?
Vorrei soffermarmi su quella che mi pare la maggiore novità. Una caratteristica del processo canonico matrimoniale pre-riforma era infatti che la sentenza di primo grado si sarebbe potuta eseguire (tranne alcune marginali eccezioni), solo se fosse stata confermata da una sentenza conforme ad essa successiva. Vigeva in questa ipotesi il principio della “doppia conforme”, tale per cui era l’emanazione di una sentenza concorde a un’altra precedente che poneva termine al processo.
Proprio perché la sentenza di appello contraria a quella precedentemente emanata poteva e doveva – seppur con alcuni logici limiti – essere riesaminata nel merito in seconda o addirittura in terza istanza, si poteva dare l’ipotesi che si giungesse all’esecutività di una sentenza matrimoniale, non dopo due soli gradi di giudizio, ma dopo tre, quattro o più, con un pericoloso allungamento dei tempi processuali e la conseguente creazione di un’area di insicurezza sulla propria condizione (a volte passano anni prima che si dichiari un matrimonio nullo, impedendo così a una persona di ripensare il disegno di realizzare una nuova famiglia, un’identità in definitiva).
Ecco allora la ricerca di una maniera più rapida per giungere alla verità sostanziale sul vincolo coniugale. Non a caso, il Sinodo straordinario del 2014 aveva avanzato a larga maggioranza l’ipotesi di superare la “doppia sentenza conforme”. Ed effettivamente, la nuova normativa così dispone: “La sentenza che per la prima volta ha dichiarato la nullità del matrimonio, trascorsi i termini stabiliti…, diventa esecutiva” (can. 1679). Non è pertanto più obbligatorio appellare a un secondo grado. Tuttavia non è certamente negata la possibilità di appellare la sentenza, perché la nuova legislazione al contempo dispone che “alla parte che si ritenga onerata e parimenti al promotore di giustizia e al difensore del vincolo rimane il diritto di interporre querela di nullità della sentenza o appellare contro la medesima sentenza…” (can. 1680, § 1).
È vero che i processi saranno più brevi?
È evidente che, non essendo più necessario un secondo grado di giudizio, le sentenze saranno esecutive prima, rispetto a quando invece era necessario un altro grado di giudizio, sino a giungere alla doppia conforme.
Nella prospettiva, su rilevata, di velocizzare i processi di nullità di matrimonio, la nuova normativa prevede altresì un “processus brevior”, un processo più breve e agile – in aggiunta a quello documentale come attualmente vigente – in cui giudice unico è il Vescovo diocesano. Perché si possa far ricorso a questa strada procedurale, la causa di nullità deve essere introdotta da entrambe le parti, le quali pertanto devono essere entrambe convinte nella nullità del matrimonio; e le prove testimoniali o documentali devono essere evidenti e rendere evidente la nullità.
I processi saranno gratuiti?
Il Papa non ha stabilito che il processo debba essere gratuito ma nel preambolo (che non ha in senso stretto valore percettivo) del motu proprio Mitis Iudex Dominus Iesus si è augurato che le conferenze episcopali trovino le modalità per assicurare una giustizia gratuita, “salva la giusta e dignitosa retribuzione degli operatori dei tribunali”. Ritengo poi che, per ragioni di giustizia, deve essere comunque essere fatta salva la doverosa retribuzione degli avvocati e procuratori.
Del resto, il gratuito patrocinio è tradizionalmente presente da sempre nei tribunali ecclesiastici. Basti solo porre mente all’art. 5 delle norme circa il regime amministrativo e le questioni economiche dei tribunali ecclesiastici regionali dettate dalla Conferenza Episcopale italiana; e, naturalmente, la normativa universale stabilita dal Codice di diritto canonico (can. 1464, 1490, 1649 ecc.).
Una delle novità più rilevanti sembra essere l’introduzione del Vescovo come “giudice unico”. Che cosa significa in termini giuridici e cosa cambia nella realtà?
Il nuovo testo del canone 1671 presuppone la dottrina secondo la quale il Vescovo diocesano è giudice nella sua Chiesa particolare, e quindi afferma che il tribunale può essere costituito dal solo Vescovo diocesano. Questi non è però l’unico giudice nella sua Chiesa particolare: si chiede, infatti, al Vescovo diocesano di costituire un tribunale che possa giudicare in sua vece, e si dà, comunque, al Vescovo stesso la facoltà di accedere a un tribunale viciniore.
Inoltre, nel caso di “processo ordinario”, se il vescovo non può istituire un tribunale né servirsi di quello di una diocesi vicina, può nominare un giudice unico, un chierico, che, laddove sia possibile, sarà associato a due aiutanti anche laici “di vita specchiata, esperti in scienze giuridiche o umane”, che saranno approvati dallo stesso vescovo per questo compito.
Indicando il Vescovo come “giudice unico”, si ha l’impressione che si voglia dare una soluzione ai processi non più solo giuridica ma anche pastorale. Qual è il suo parere in proposito?
Mi pare che al riguardo la risposta migliore sia quella che offre il Pontefice, ossia che tale normativa serve a “rendere evidente che il Vescovo stesso nella sua Chiesa, di cui è costituito pastore e capo, è per ciò stesso giudice tra i fedeli a lui affidati”. Non solo: con specifico riferimento al processo più breve, papa Francesco nel preambolo al motu proprio scrive altresì: “Non mi è tuttavia sfuggito quanto un giudizio abbreviato possa mettere a rischio il principio dell’indissolubilità del matrimonio; appunto per questo ho voluto che in tale processo sia costituito giudice lo stesso Vescovo, che in forza del suo ufficio pastorale è, con Pietro, il maggiore garante dell’unità cattolica nella fede e nella disciplina”.
È infatti sempre più doveroso far comprendere che nel processo, percepito spesso dai coniugi spesso come lungo e faticoso, ogni operatore della giustizia ecclesiale debba piegarsi verso i fedeli spesso smarriti e feriti, facendosi evangelizzatore, anche per non turbare il cuore delle parti coinvolte e renderle più consapevoli delle scelte vocazionali future alla luce di quanto acclarato nel giudizio.
Alcuni hanno osservato che, con questa riforma, il problema di concedere la comunione a divorziati e risposati è superato a priori. Lei che ne pensa?
Con affermazioni del genere si confondono due piani ben diversi: il processo matrimoniale canonico ha un suo oggetto proprio e specifico, che è la validità o l’invalidità del vincolo. Il matrimonio sacramentale c’è o non c’è, non vi sono vie di mezzo, e pertanto il vincolo matrimoniale canonico non si potrà sciogliere come nel divorzio, ma solo dichiarare se sia esistente oppure inesistente per una delle cause di nullità previste dal diritto.
Il divorzio, appunto, scioglie ciò che
è valido, priva quindi di effetti una realtà che sino a quel momento aveva sempre e validamente prodotto effetti (giuridici, morali, sociali ecc.). Il matrimonio canonico, rato e consumato, come recita il can. 1141 in un latino che è comprensibile a tutti, “nulla humana potestate nullaque causa, praeterquam morte, dissolvi potest”.
Senza entrare in un tema complesso, la dottrina della Chiesa tuttora vigente è quella proposta dal n. 1650 del Catechismo della Chiesa cattolica: “Oggi, in molti paesi, sono numerosi i cattolici che ricorrono al divorzio secondo le leggi civili e che contraggono civilmente una nuova unione. La Chiesa sostiene, per fedeltà alla parola di Gesù Cristo (“Chi ripudia la propria moglie e ne sposa un’altra, commette adulterio contro di lei; se la donna ripudia il marito e ne sposa un altro, commette adulterio” Mc 10,11-12), che non può riconoscere come valida una nuova unione, se era valido il primo matrimonio. Se i divorziati si sono risposati civilmente, essi si trovano in una situazione che oggettivamente contrasta con la Legge di Dio. Perciò essi non possono accedere alla Comunione eucaristica, per tutto il tempo che perdura tale situazione. Per lo stesso motivo non possono esercitare certe responsabilità ecclesiali. La riconciliazione mediante il sacramento della Penitenza non può essere accordata se non a coloro che si sono pentiti di aver violato il segno dell’Alleanza e della fedeltà a Cristo e si sono impegnati a vivere in una completa continenza”.
Chi pertanto afferma che con il nuovo processo matrimoniale il “problema di concedere la comunione a divorziati e risposati è superato a priori”, non fa altro che considerare questo ciò che in realtà non è e non può essere, una “catholic way to divorce”.
Certamente, la maggiore celerità delle cause permetterà un migliore superamento di molti problemi di coscienza: chi si trova in una situazione irregolare (come appunto quella di un divorziato risposatosi) qualora se ne diano le condizioni potrà chiedere la declaratoria di nullità del precedente matrimonio canonico, così che, una volta ottenutala, potrà risposarsi anche “coram Deo et hominibus” e accedere al Sacramento a cui tutti gli altri sono finalizzati, ossia l’Eucaristia. Cosa che, del resto, un fedele poteva fare anche nel precedente sistema, con il vantaggio ora di una maggiore semplificazione e rapidità delle cause.