Sul sito web della Fondazione Giorgio Gaber (www.giorgiogaber.it), nata nel 2006 per ricordare e valorizzare la figura e l’opera dell’artista, possiamo leggere queste parole: “Giorgio Gaber è un intellettuale, forse l’ultimo della sua generazione. Quando scrive: La mia generazione ha perso non è per finta ma nemmeno per autolesionismo. Grida che qualcosa è finito. La sua lingua è netta, semplice, diretta. Non ha complessi d’inferiorità verso la cultura alta, narcisistica, autoreferenziale degli intellettuali all’italiana. In teatro ha promosso un’audace convivenza di forme, dal monologo alla canzone, dalla pièce di prosa fino ai bis con la chitarra. E volta per volta, a seconda delle necessità, la sua parola si è fatta sberleffo, richiamo, dileggio, emozione, disincanto, amarezza”.
Queste poche note introduttive sono sufficienti per comprendere l’interesse che circonda tuttora l’opera artistica di Giorgio Gaber, soprattutto oggi che le distruttive conseguenze della cultura secolarizzata e senz’etica degli ultimi decenni – da lui messa alla berlina nelle forme graffianti dell’ironia – sono ormai esplicite e sotto gli occhi di tutti.
Scrive ancora il sito web della Fondazione: “Gaber si è sentito di colpo solo, sempre più solo. Credeva di aver conquistato una certa opinione pubblica ma poi l’ha sentita sempre più distaccata, impermalosita, alla fine persino polemica. In compenso, in oltre quarant’anni di carriera, ha continuato a scoprire nuovi interlocutori e sempre nuovo pubblico, divenendo intramontabile campione d’incassi a teatro e, a sorpresa, di nuovo gran venditore di dischi alla svolta del secolo. Ma come si costruisce, nel tempo, un intellettuale vero?”.
A questa domanda risponde un libro informato e vivace che vogliamo qui presentare in occasione dell’anniversario di Gaber, nato a Milano il 25 gennaio del 1939. Un libro che ricostruisce, con competenza ed amore, l’intera opera del grande cantautore milanese, consentendo di comprenderne il fondamento etico e culturale. Il volume, pubblicato dall’editrice Ancora, a firma di Andrea Pedrinelli, giornalista di musica e teatro, s’intitola Non fa male credere, sottotitolo: La fede laica di Giorgio Gaber.
Giorgio Gaber – leggiamo nel primo capitolo – “era partito da un successo popolare fatto di canzoni pop, Festival di Sanremo e prime serate da conduttore, cantante ed intrattenitore in televisione. E all’apice del successo aveva avuto il coraggio di abbandonare tutto per cercare un modo più libero e personale di esprimersi”.
È a questo punto (siamo agli inizi degli anni Settanta, con album come Il signor G e Dialogo tra un impegnato e un non so) che inizia la seconda parte del percorso creativo dell’artista con brani stimolanti e innovativi destinati a lasciare il segno. “Il punto focale del linguaggio gaberiano – scrive Pedrinelli – è la sincerità: nel momento in cui tu dici delle cose che si possono non condividere, ma che vengono ritenute sincere e vere, a quel punto il pubblico ti segue, anche chi non è d’accordo”.
La libertà non è star sopra un albero,
non è neanche avere un’opinione,
la libertà non è uno spazio libero,
libertà è partecipazione.
Grazie alla collaborazione con il paroliere e pittore Sandro Luporini, Gaber porta a compimento la sua idea di “Teatro Canzone”, dando ad essa concretezza attraverso una serie continua di spettacoli, sempre sottolineati dal consenso di pubblico. Ecco alcuni versi tratti dalla canzone Non è più il momento (registrata nell’album Io se fossi Gaber del 1984/1985), che possiamo ritenere esemplificativa della sua fase matura di autore:
Caro amico, sei messo male
sei vittima di un tempo
dove tutto si è appiattito
ciò che aveva un senso si è deteriorato.
No, non fa male credere
fa molto male credere male.
Una sinergia, quella fra teatro e canzone, che costituisce il “marchio di fabbrica” di Giorgio Gaber e alla quale la sua eclettica personalità di cantautore, drammaturgo ed attore riesce a conferire un’identità pressoché unica. Conquistando il successo di pubblico senza alcun battage pubblicitario. Un successo che era motivo di stupore anche per lui, al punto che a fine carriera affermerà con commozione: “Trovo sempre una rispondenza entusiastica. Fasce di età tutte rappresentate, anche i ragazzi mi accorgo che sanno a memoria le parole delle canzoni…”.
Il libro di Pedrinelli rappresenta una documentata “bussola” della biografia e della discografia gaberiana, ma soprattutto propone al lettore una approfondita analisi dell’universo intellettuale, emotivo e spirituale di Gaber, individuando in particolare le profonde istanze di natura etica che, a ben vedere, costituiscono il motivo ispiratore della sua opera.
Vivere
non riesco a vivere
ma la mente
mi autorizza a credere
che una storia mia
positiva o no
è qualcosa
che sta dentro
la realtà.
“Un grido personale eppure universale”, scrive Andrea Pedrinelli. Il “coraggio di denunciare un proprio smarrimento esistenziale che però mai condusse Gaber a desistere e sempre lo spronò a riflettere”. Gaber iniziò infatti “da una riflessione espressamente socio-politica, per poi arrivare a pensare in modo sempre più esplicito l’uomo”. Ed è sulla base di questa considerazione che si sviluppa la componente forse più interessante e originale del libro: quella che stabilisce una sorta di analogia tra “un Gesù depositario di verità che, pur di aprire gli occhi alla gente, distrugge con veemenza tutto il falso idolatrare venuto costruendosi nel tempio, ed un Gaber onesto e lucido lettore della realtà, che pur senza mettersi in cattedra, fa esplodere con analoga veemenza il dovere morale di denunciare ciò che vede”.
Io se fossi Dio
maledirei davvero i giornalisti
e specialmente tutti
non sapete approfittare della libertà che avete
avete ancora la libertà di pensare
ma quello non lo fate
voi vi buttate sul disastro umano
col gusto della lacrima in primo piano.
I versi citati costituiscono un efficace esempio dell’anticonformismo dell’artista e riflettono, nel contempo, una consapevole critica alla deformazione professionale del sistema massmediatico, trasformatosi in cassa di risonanza delle “cattive notizie”, nell’errata convinzione che queste, provocando un’emozione negativa, possano ottenere un’audience più alta. Ma al tempo stesso – sottolinea Pedrinelli – “nel preciso momento in cui dalla distruzione necessaria degli idoli emerge l’altrettanto necessaria esigenza di ritrovare ‘qualcosa’ su cui ricostruire l’uomo, ecco che monta nel Teatro Canzone l’esigenza di un’etica”. E qui il giornalista riporta le parole di Gaber pronunciate nel corso di un’intervista a La Stampa del 1989: “Non sono cattolico. Ma… il mistero c’è, eccome, e io sono uomo di fede. La fede, mi ha detto una volta un prete, è una ferita che ci portiamo dentro e che dobbiamo cercare di rimarginare, pur sapendo che ciò non accadrà mai. Mi sta bene”.
Queste parole, questa consapevolezza, conferiscono ulteriore valore all’opera artistica di Giorgio Gaber, trasponendola su un piano più alto di ricerca esistenziale. In sintonia con quanto avrebbe affermato, dieci anni più tardi, Giovanni Paolo II. L’arte – scriveva il Papa Santo nella Lettera agli artisti del 1999 – “anche al di là delle sue espressioni più tipicamente religiose, ha un’intima affinità con il mondo della fede, sicché, persino nelle condizioni di maggior distacco della cultura dalla Chiesa, proprio l’ar te continua a costituire una sorta di ponte gettato verso l’esperienza religiosa”.
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