Olocausto: la testimonianza di una sopravvissuta salvata da un sacerdote polacco

Sara Erenhalt, insieme ad altre cinque donne, riuscì a sfuggire dall’orrore nazista grazie a padre Alojzy Pitlok che le ospitò e le salvò da una sicura morte

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Sara Erenhalt viveva con la sua famiglia a Przemyśl. Nel 1941 si sposò con Leon Patera. Dopo dieci mesi nacque il primo figlio. Un tragico scherzo del destino fece si che, durante la persecuzione nazista, lei e la sua famiglia si trovavano presso uno dei due ghetti istituiti dai tedeschi in Przemyśl. Leon è stato ucciso mentre cercava di fuggire dal ghetto. I genitori di Sara e le sue sorelle furono deportati nel campo di concentramerento di Bełeżec. Altri membri della sua famiglia, tra cui il suo unico figlio, vennero uccisi nel ghetto.

Nel settembre del 1943 Sara fu deportata, insieme ad altre persone nel campo di Birkenau (vicino a Auschwitz). Dopo il periodo di quarantena, le fu dato il numero 66952 e venne mandata a lavorare nella fabbrica “Union”, situata a tre chilometri dal campo. All’inizio del 1944, venne trasferita a Auschwitz pur continuando a lavorare in fabbrica.

Alla fine del 1944, iniziò il processo di liquidazione del campo. Nel gennaio del 1945, i vagoni per trasportare tutti i prigionieri non erano sufficienti. I restanti prigionieri del campo vennero costretti a procedere nella cosiddetta ‘marcia della morte’, a piedi nudi, verso i confini tedeschi. Con sorpresa di tutti, i tedeschi ordinarono una sosta nel villaggio di Poręba, nei pressi di Pszczyna, e dissero ai prigionieri di cercarsi un alloggio. Sara e altre sei donne andarono verso le case più vicine.

Secondo quanto riportato nell’archivio dello Yad Vashem, Sara racconta: “Siamo tutti entrati in alcuni cottage. C’era una persona anziana. Lo abbiamo salutato dicendo: ‘Sia lodato Gesù Cristo’. Gli abbiamo chiesto di poter passare la notte nella stalla. Questi commentò: ‘Poverette voi come pensate che posso lasciarvi dormire in un fienile con una temperatura di meno diciotto gradi’.

Da come parlava, quella persona sembrava un sacerdote, anche se non vestiva la tonaca. Allora abbiamo iniziato a parlargli chiedendogli un rifugio a casa sua. Lui ha subito accettato e ha nascosto me e una delle donne che si chiamava Genia. Abbiamo cercato di convincerlo che non potevamo separarci dalle nostre compagne perché eravamo state insieme tutto il tempo nel campo di concentramento, e se le avessimo lasciare andare, sicuramente sarebbero morte. (Archivio di Yad Vashem, Ref. O.3 / 1588).

Allora l’anziano, che intanto si era rivelato come padre Alojzy Pitlok, ha accettato di ospitarci tutte e si è offerto di aiutarci dopo la liberazione. Ha detto che per lui non aveva nessuna importanza che fossimo ebree,  ma era importante che il nostro angelo custode ci aveva inviato lì, e lui avrebbe potuto aiutarci e salvarci. Padre Pitlok ha anche detto che, se non fossimo riuscite a trovare i nostri familiari, avremmo sempre potuto tornare lì e lui ci avrebbe aiutato a trovare un lavoro”.

Dopo la guerra, Sara si mise in contatto con l’organizzazione Sionista e nel 1946 emigrò in Israele.

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ZENIT Staff

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