Rorty ha avuto il merito di coniugare il pragmatismo americano con l’ermeneutica, che è nata e si è sviluppata in Europa, soprattutto in Germania e in Italia.

Egli concorda pienamente con Vattimo sul fatto che “la ricerca della verità e della conoscenza non sono né più né meno che ricerca di un accordo intersoggettivo”[1].

Il filosofo nega che la conoscenza umana sia uno “specchio della realtà”[2], cioè nega il concetto metafisico di verità, intesa come conformità del pensiero alla realtà: adaequatio intellectus ad rem.

Questo modo di intendere la verità è proprio non soltanto della metafisica, ma anche del senso comune: l’uomo della strada quando formula il giudizio “oggi piove” sa, con assoluta certezza, che quel giudizio è vero solo se corrisponde all’oggetto a cui si riferisce, cioè alla pioggia, e sa anche che esso sarebbe falso se non ci fosse tale corrispondenza.

Secondo Rorty anche nella moderna epistemologia è presente il concetto metafisico di verità, perché essa sostiene che le teorie scientifiche devono conformarsi alla realtà indagata.

L’epistemologia deve esser sostituita dall’ermeneutica, la quale non né una disciplina né un nuovo metodo, ma è una forma di pensiero che emancipa la filosofia dall’idea di verità ereditata dalla tradizione metafisica.

Scrive in proposito:

“Il mio proposito non è di presentare l’ermeneutica come una disciplina che sarebbe l’erede dell’epistemologia, come se essa mirasse a soddisfare il vuoto culturale che riempiva, a suo tempo la filosofia centrata sulla teoria della conoscenza. Nell’interpretazione che io proporrò, l’‘ermeneutica’ non è il nome di una disciplina o di un metodo che si presume possa riuscire là dove la teoria della conoscenza ha fallito, ed essa non è neanche un programma di ricerca. Al contrario, l’ermeneutica è l’espressione della speranza che lo spazio culturale aperto dal declino dell’epistemologia non sarà riempito, essa è l’espressione della speranza che la nostra cultura diventerà una cultura in cui l’esigenza […] del confronto non sarà più sentito”[3].

Il confronto con le cose non sarà più sentito, perché il concetto di verità come conformità del pensiero con la realtà, sarà sostituito con il dialogo intersoggettivo.

Rorty concorda con Vattimo sul fatto che la Chiesa, depositaria di un sapere metafisico, sia un ostacolo al dialogo interpersonale e alla democrazia, che su tale dialogo si fonda.

Afferma infatti che le “istituzioni ecclesiastiche, nonostante tutto il bene che fanno, nonostante tutto il conforto che danno ai bisognosi e ai disperati, sono pericolose per le società democratiche”[4].

La loro pericolosità dipende dalla fede religiosa che professano pubblicamente, essa è infatti “politicamente pericolosa”[5], perché afferma delle verità assolute, incompatibili  con “gli spiriti secolarizzati dell’epoca contemporanea”[6] aperti al dialogo e al confronto democratico.

Il filosofo sostiene che la religione deve essere considerata una “faccenda privata”[7], affermando che la difficoltà a considerare la religione in questo modo deriva dalla convinzione che i bisogni religiosi, come la ricerca di Dio e della verità in generale, siano costitutivi della natura umana, mentre invece essi dipendono dalla formazione culturale ricevuta.

Scrive infatti:

“Solo se si pensa che i bisogni religiosi siano in un certo senso pre-culturali e ‘costituiscano la base della natura umana’, si sarà riluttanti a lasciare la questione in questi termini – si sarà cioè riluttanti a privatizzare completamente la religione, lasciandola ondeggiare libera rispetto all’esigenza di universalità.

Se però si abbandona l’idea che in tutti gli organismi umani sia fortemente radicata o la ricerca della verità o la ricerca di Dio, e si ammette che entrambe sono materia che riguarda la formazione culturale, allora tale privatizzazione apparirà naturale e appropriata”[8].

La cultura odierna secolarizzata ed emancipata dai dogmatismi della metafisica può accogliere, secondo Rorty, il Cristianesimo così come lo presenta Vattimo, il quale “accantona il tentativo di collegare la religione con la verità”[9] e presenta l’incarnazione come “un atto di kénosis, l’atto con cui Dio cede tutto agli esseri umani. Questo atto autorizza Vattimo a fare la sua affermazione più cruciale e più importante: che la ‘secolarizzazione’ è ‘il tratto costitutivo di una autentica esperienza religiosa’ ”[10].

In questo cristianesimo secolarizzato Dio “cede tutto agli esseri umani”, cioè si spoglia di tutti gli attributi divini (la trascendenza, l’infinità, l’immutabilità, l’eternità, ecc.) e cessa quindi di essere Dio, essendo considerato un significato religioso veicolato dalla cultura cristiana.

La fede cristiana si libera così dal retaggio della metafisica e può affermare che l’unica “realtà” di cui è portatrice è il suo messaggio, che può essere interpretato in molteplici modi secondo la sensibilità religiosa di coloro che lo accolgono.

Il relativismo religioso è la conseguenza più evidente dell’ermeneutica di Vattimo come di quella di Rorty.

In generale si può affermare che l’ermeneutica odierna, rappresentata da questi due autori, identifica l’essere con il linguaggio che storicamente si afferma nella cultura e nella società, “appoggiandosi – scrive in proposito Grondin – sulla celebre formula di Gadamer – ‘l’essere che può essere compreso è linguaggio’ ”[11], fraintendendo forse il pensiero di questo filosofo, la cui ermeneutica, come vedremo nei prossimi capitoli, è stata al centro del dibattito filosofico dopo la pubblicazione nel 1960 di Verità e metodo.

(La seconda parte è stata pubblicata il 17 dicembre)

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NOTE

[1] R. Rorty, Anticlericalismo e teismo, in R. Rorty, G. Vattimo, op. cit., p. 40.

[2] Cfr. idem, La filosofia e lo specchio della natura, Bompiani, Milano 2004.

[3] Idem, L’homme spéculaire, Le Seuil, Paris 1990, p. 349.

[4] Idem, Anticlericalismo e teismo, cit., p. 37.

[5] Ibidem.

[6] Ibidem.

[7] Ibidem.

[8] Ibidem, p. 44.

[9] Ibidem, p. 39.

[10] Ibidem. Il corsivo è mio.

Questo concetto della kénosis come spogliazione della natura divina è presente anche nei teologi luterani di Tubinga del XVII secolo, in Hegel e nelle teologie della morte di Dio.

La kénosis, di cui parla San Paolo nella Lettera ai Filippesi, deve essere intesa come l’assunzione da parte di Dio della natura umana.

[11] J. Grondin, L’herméneutique, Presses Universitaires de France, Paris 2006, p. 109.