“Nel mio lavoro di terapeuta ho visto con precisione un fenomeno: l’egoismo fa male”, afferma Risè nella sua opera, già edita nel 2004 con Sperling & Kupfer. “Tutto questo vivere ‘per sé’ e mai con e soprattutto per gli altri, fa ammalare”. Perché – sostiene l’autore – la parte costitutiva degli umani è proprio quella di donarsi: “A partire dalla sua biologia, e con la sua psiche, l’uomo e la donna sono fatti per donarsi perchè la vita continui e tutti ne godano. Anche il sapere viene accumulato per poter poi essere trasmesso e donato”.
Quindi chiusura e rifiuto del dono possono paragonarsi ad una malattia:“Anche i manuali diagnostici assicurano che il narcisismo è un grave disturbo della personalità”. Esso è portatore di nevrosi, paure e soprattutto infelicità. “Non vedere questo lato della vita – sottolinea infatti Risè – la meraviglia dell’abbondanza che ci si rovescia addosso non appena accettiamo lo stupore dell’incontro con l’altro, l’emozione della relazione, per rinchiuderci invece nella prigione dell’accumulo, del calcolo, dell’avarizia è patologico”.
L’essere umano “ha bisogno” di calore, di amare e di essere amato, insiste il noto psicanalista. L’uomo sarebbe una creazione del desiderio e non del bisogno. E un gesto che lo riconnette al suo scopo, al suo profondo desiderio di felicità è proprio la primordiale esperienza del dono, quella che inaugura la vita di ognuno ed è frutto dell’amore che si riceve dalle madri e dai padri.
“Sia nell’amore materno sia in quello paterno c’è qualcosa di più rispetto all’istinto e si riferisce allo slancio donativo del genitore rispetto ai figli”, afferma lo studioso.Quando il padre e la madre – spiega – si impegnano a far crescere i figli, l’esperienza del dono diventa pressoché totale e fa crescere anche i genitori, li strappa al passato e li butta nel mondo nuovo, diverso, rendendoli più forti. Ne fa degli individui nuovi e li mette nel tempo e nella storia con una nuova e più autentica presenza.
“Si può dire che la nascita dei figli fa rinascere i genitori”, afferma Risè, rimarcando che questa offerta di sé dei genitori ai propri figli richiede una forza che viene altrove. Non basta un’indole buona o un sapere pedagogico più o meno acquisito, è necessario “un senso di sacralità” che si esprime innanzitutto verso la vita nascente.
Nel secondo capitolo del libro, l’autore ricorda gli insegnamenti trasmessigli da don Luigi Giussani, il quale chiedeva sempre di non essere avari, perché questo conduceva a una povertà affettiva, spirituale, intellettuale. Il fondatore di Comunione e Liberazione invitava a spendersi e ad essere autentici coraggiosi, ripetendo sempre che è il rapporto con l’altro che rende forti.
Per Giussani, infatti, il cristianesimo non era una morale, un discorso, una filosofia o un sistema di pensiero, mal’esperienza di un incontro, quello con Gesù Cristo, il figlio di Dio che si è dato fino in fondo. “Felicità è donarsi ed accogliere i doni della vita – scrive Risè -. Il dono è un grande fabbricante di felicità: perché senza dono non c’è amore né dato né ricevuto. E se l’essere umano non ama gli altri, i suoi compagni di avventura nel mondo, non può essere felice. Sarà magari ricco, potente, ‘di successo’, ma gli mancherà sempre quella lucentezza nello sguardo, quell’allegra amicizia tra corpo e anima che accompagna la felicità. Che nasce dall’amicizia tra il suo corpo-anima e quello degli altri”.
Sul rapporto tra uomo donna, il docente mette in guardia dal rischio della cultura utilitaristica che trasforma l’amore in oggetto di consumo. Parla infine dei maestri del dono che ci insegnano a varcare la soglia dell’avarizia, della chiusura, del controllo e anche dell’abitudine. Ovvero tutti quei maestri “che ci aiutano a volare più alto, a darci di più e meglio, a chiederci di una vita diversa, più generosa, di migliore qualità”.