Ci vorrebbe un museo per raccogliere e custodire tutti i trofei che nel corso della sua lunga carriera ha conquistato Daniele Masala. Romano, classe ’55, questo vero e proprio “iron man de’ noantri” ha intrecciato tutta la sua carriera al filo prestigioso delle medaglie. Ma non solo. Masala ha saputo penetrare lo sport fino alla radice dei suoi valori più autentici di umanità.
Ambasciatore dello spirito decoubertiano, ha vestito per oltre un centinaio di volte la divisa azzurra della Nazionale e ha dato lustro all’Italia sotto i cinque cerchi olimpici. Alle Olimpiadi di Los Angeles, nel 1984, ha conquistato due ori nel Pentathlon moderno: uno in quello individuale e un altro in quello a squadre. Quattro anni più tardi, a Seoul, è salito al secondo gradino del podio sempre nella sezione a squadre di questa disciplina. Non ancora sazio, nel 1992, a trentasette anni, ha guidato fino alla conquista del bronzo gli azzurri del Pentathlon vestendo i panni di Commissario tecnico.
Oltre alle vittorie olimpiche, c’è però tanto altro. Che lo stesso Masala, il quale è oggi docente di “Metodologia dell’allenamento” e “Tecnica e didattica delle discipline sportive” all’Università di Cassino e del Lazio, non lesina dai suoi racconti; spunti utili per riconsegnare allo sport una dimensione valoriale di sano agonismo.
Quell’agonismo che il Daniele inizia a conoscere ben presto, durante la sua infanzia. Siamo agli albori dei mitici anni ’60, nell’Italia del boom economico sono ancora impresse nella memoria dei tanti le immagini suggestive delle Olimpiadi di Roma. È sull’onda d’entusiasmo suscitata da quell’evento che molte famiglie iscrivono i propri figli a svolgere attività sportiva.
Daniele entra in piscina, luogo in cui sembra trovarsi molto a suo agio. I risultati agonistici sono promettenti, tanto che tra il 1968 e il 1972 colleziona una serie di medaglie compresa quella d’argento nei 400 misti ai Campionati Italiani Assoluti di Nuoto di Napoli. In questo periodo della sua vita prende parte a qualche gara di categoria di nuoto, tiro e corsa. “Più che altro per divertimento”, afferma oggi a ZENIT.
Oltre la spensieratezza del divertimento, c’è però chi intravede la stoffa del talento. Si tratta di Mauro Tirinnanzi, uno degli allenatori della Nazionale che osserva le prestazioni di Daniele, il quale riesce a vincere queste gare nonostante prima di allora non abbia mai corso e nemmeno sparato.
Intanto – spiega lui stesso – “nonostante fossi un discreto nuotatore, improvvisamente i risultati cominciarono a stagnare”. Un po’ un segno premonitore di una svolta che era nell’aria. “Avevo Mauro (Tirinnanzi, ndr) ‘alle calcagne’: insisteva affinché provassi ad approcciarmi al Pentathlon”. L’insistenza di un suo allenatore persuade Daniele, il quale si avvicina a questa gara sportiva originaria dell’antica Grecia articolata su cinque prove di corsa, salto in lungo, tiro del giavellotto, lancio del disco, lotta. Durante lo scorso secolo, la sequenza fu così modificata: equitazione, scherma, tiro a segno con la pistola, 300 m di nuoto (oggi 200 m stile libero) e e 4.000 m corsa campestre (oggi 3.000 m).
“Cominciai timidamente”, prosegue Daniele. Ma a quella timidezza iniziale subentrò ben presto la determinazione di chi è convinto dei propri mezzi. “Nel giro di un anno cominciai ad essere considerato una delle migliori speranze italiane per il Pentathlon moderno”, spiega. Passano tre anni e il giovane romano debutta alle Olimpiadi, quelle di Montreal, nel 1976, dove arriva quarto pur essendo ancora di categoria junior.
Sono soltanto le prove generali di una carriera densa di successi. Per 24 volte, tra individuale e gare a squadre, Masala è campione italiano di Pentathlon. Inoltre conquista tantissime medaglie internazionali e per due anni è campione del mondo: nell’individuale a Roma, nel 1982, e a squadre a Montecatini, nel 1986.
Basta scambiare due chiacchiere con lui, farlo parlare del Pentathlon con la passione che rimane intatta, per lasciarsi persuadere dal fascino che questo sport trasuda. Fascino che resta tuttavia inibito al grande pubblico, assuefatto dalle notizie di calcio, unica disciplina capace di occupare il grande palcoscenico mediatico.
“Quando accendiamo la tv o leggiamo un giornale sportivo ci rendiamo conto di come lo spazio per gli sport minori sia sempre più ridotto”, riflette amaramente Masala. “Solo le Olimpiadi o i grandi risultati possono salvare queste discipline dallo strapotere economico e mediatico del calcio”, prosegue. Una situazione di monopolio che il Masala ex atleta e docente alla facoltà di Scienze motorie non concepisce. “Penso che ci sia bisogno di una seria azione per imporre delle alternative valide al calcio – la sua proposta -: ritengo la monocultura sorella gemella della non cultura, ossia dell’ignoranza”.
Azione che passerebbe per un’opera di informazione e di educazione ai valori sportivi da rivolgere più che ai giovani alle loro famiglie. “È difficile trovare validi incentivi per i giovani – dice Masala -. Credo che valori di base come l’amicizia, il piacere di stare insieme, divertirsi in modo sano possano in qualche modo influenzare prima di tutto le famiglie, le quali debbono far innamorare di sport i propri figli”.
L’amore, appunto. Che nei confronti dello sport non deve venire meno nonostante le sconfitte (de Coubertin docet). Masala denuncia che in Italia manca attualmente “una sana cultura”, proprio quella che aiuta a far capire a un’atleta che le sconfitte sono il suo miglior insegnamento. Di questo ne è convinto anche Masala, “anche se – aggiunge – le sconfitte a lungo andare procurano frustrazione, perché perdere continuamente insegna a non vincere”.
Vincere è spesso la migliore medicina per il proprio morale. Vincere è un esercizio che Masala ha sperimentato anche a Roma, nella sua città, quando nel 1982 si è laureato campione del mondo. “È stato il primo grande evento che mi ha visto protagonista assoluto: una sensazione che non potrò mai dimenticare e che allo stesso tempo è difficile da raccontare”, spiega. Il volto di Masala è però rivolto verso il futuro, dove guarda con ottimismo e fiducia “in me e gli altri”. Di qui la sua frase: “Ritengo che la migliore vittoria sia quella che ancora deve arrivare”.
Una vittoria degna di quella che ha raggiunto nella sua vita privata, vissuta in felicità con sua moglie e i loro tre figli. “Debbo tutta la mia fortuna agonistica e non solo alla mia famiglia originaria e a quella attuale – la riflessione finale di Masala -. La prima perché mio padre mi è sempre stato vicino anche nei momenti più difficili, la seconda perché mi ha dato quella sicurezza e quella forza di cui dispongo anche adesso”.