Papa Francesco nell’incontro celebrato a Colombo, tra i rappresentanti delle religioni ha accettato da un induista un abito rituale.
Tale scelta è un segno di rispetto, ma anche di riconoscimento di eguale dignità come persone e di condivisione di uno stesso compito con quanti professano una diversa fede.
Ogni Papa ha conferito al dialogo interreligioso non tanto un significato diverso, quanto piuttosto l’accentuazione di una funzione specifica: Roncalli e Montini lo intendevano – come testimonia il contenuto della Pacem in terris e della Populorum progressio come lo sforzo comune ad un processo di liberazione dei popoli, che aveva nella pace ad un tempo il suo presupposto ed il suo scopo più importante: si trattava di passare, con la distensione, dall’assenza di guerra alla collaborazione in una ritrovata unità di intenti.
Giovanni Paolo II poneva al centro dello stesso sforzo verso i rappresentanti delle altre religioni la rivendicazione dei diritti e delle libertà di cui ogni uomo deve godere: egli giungeva per ciò stesso al punto di negare, quanto meno implicitamente, la legittimità dei regimi politici responsabili delle limitazioni di queste libertà e questi diritti.
Ne conseguiva una accentuazione del ruolo della Chiesa Cattolica quale soggetto che, per la sua particolare struttura, era più in grado – tra le diverse confessioni – di offrire a chi soffriva questa condizione una protezione ed un sostegno concreto.
Benedetto XVI, in quanto intellettuale, privilegiava la discussione sui temi teologici e filosofici.
Con Papa Francesco si torna ora ad un impegno più diretto per la causa della giustizia sociale, ed il dialogo tra le religioni sia sul modo in cui questo impegno debba essere messo in pratica per risultare più efficace.
Nel discorso pronunziato a Colombo si coglie certamente un ripudio del sincretismo, sia perché un simile scopo – anche ammesso che lo si potesse seriamente perseguire – farebbe venir meno la specificità di ogni religione e l’originalità dei diversi apporti spirituali e culturali, sia perché finirebbe con il distogliere dalla gravità e dall’urgenza dei problemi che l’umanità sta affrontando.
Se ne deve dedurre che il dialogo, dato che non può approdare alla formulazione di una verità totalmente condivisa, è inutile?
Certamente no, in quanto il dialogo non rappresenta soltanto un metodo, ma soprattutto un fine: esso infatti da un lato ci porta a conoscere e ad approfondire gli elementi comuni, ma dall’altro lato ci unisce intorno alla condivisione stessa di un modus procedendi, di un abito intellettuale, ma anche morale e spirituale appartenente a chiunque vi partecipi con sincerità.
La civiltà del dialogo è quindi contrapposta alla inciviltà del conflitto, ed in particolare di quel conflitto di religione che nei giorni scorsi ha causato le sue terribili prove.
Nello scegliere la via del dialogo, Bergoglio segna però un passo avanti molto netto rispetto a tutti i suoi predecessori, e parlando a Colombo lo ha indicato con chiarezza assoluta: se il dialogo non significa rinunziare “a priori” alle proprie convinzioni, esso comporta però anche accettare la possibilità che esse vengano discusse, e quindi il riconoscimento della verità necessariamente insita nelle posizioni degli altri.
Il Magistero cattolico – si potrà obiettare – non ha mai negato che le altre religioni siano portatrici di una verità parziale, ma oggi si ammette che, da una discussione pacifica e costruttiva da rendere sempre possibile e ulteriormente incentivare, divenga anche più agevole promuovere la collaborazione per promuovere un bene comune che d’altronde deve essere definito anche esso di comune accordo.
Di fronte a questa novità, i dogmatici si irrigidiscono, e giungono a mettere in discussione la stessa libertà di espressione. Questo atteggiamento si definiva un tempo con il nome di oscurantismo.
Ad esso si oppone “la Luce per le genti” che papa Francesco nella gioia del Vangelo propone in questi giorni agli uomini di buona volontà della grande isola stato dell’Oceano Indiano.