Si aprono a partire dalle normali relazioni quotidiane, dai piccoli gesti, dalle esperienze umili della vita e del dolore gli squarci interiori di Danilo Dolci sull’Eterno.
Nato a Sesana, attuale Slovenia, nel 1924, è stato poeta, sociologo, educatore e attivista della non violenza italiano.
Tutti i variegati aspetti della sua personalità di strenuo difensore delle cause dei più deboli e di sostenitore dei lavoratori contro i soprusi della mafia, sono profondamente impregnati della presenza di un Dio vivo, incarnato, operante: il poeta gli si rivolge in modo diretto e personale in questi versi che pubblichiamo.
“E Tu, Iddio” è l’incipit del colloquio a tu per tu con il Creatore, come di un discorso che non sembra avere inizio con queste parole, ma sembra sgorgare da un tempo indeterminabile, per poi proseguire sempre con quella confidenza che si utilizza tra due intimi amici, tra un padre e un figlio, o tra due compagni di lavoro. Il volto di Dio traspare nel susseguirsi di queste immagini vivide, scandite ogni volta dall’anafora: “T’ho visto spasimare sotto il bisturi”, “t’ho visto ubriaco”, “t’ho visto reggere la carriola carica”. Un malato, un uomo perduto, un lavoratore povero, fino a un bambino che tende “le mani felice di un sorriso e di un bacetto”; un semplice gesto rivolto a ciascuno di loro non rimane il sintomo di un filantropismo sterile, ma un moto supremo d’amore in Cristo, di mistica della carne, di adorazione eucaristica.
E TU, IDDIO
E Tu, Iddio
per cui cammino in questo cielo immenso
tra nuvoli di mondi
sei più povero di me:
T’ho visto spasimare sotto il bisturi
che Ti sanava un’ulcera nei visceri,
T’ho visto ubriaco
fradicio barcollare ad occhi vuoti.
T’ho visto
teso a reggere la carriola carica,
saltare lieto delle tasche nuove
delle scarpe lucenti e chiamarmi, tendermi le mani
felice di un sorriso e di un bacetto.
Mi fanno pena
quei tuoi occhi di passero curioso.
Per vivere, fratello Ti devo essere
e padre.
E ripulirti il naso gocciolante
e sorreggerti negli infermi passi,
costruirti una forte casa di pietra
massiccia bene a piombo, e risanarti
se Ti scotta la fronte abbandonata
sopra le mie ginocchia,
e procurati il pane, la minestra
ed il miele e la frutta che Ti piace:
è il mio adorarti.
La relazione eucaristica con Dio, culminante nell’atto dell’adorazione come in un bacio, è la fonte della libertà di ogni figlio di Dio, che consente di “screpolare le croste superficiali”. “L’uomo di pace” dei seguenti versi, che viene assimilato ad un albero, è libero in quanto sceglie di far affondare le proprie “invisibili radiche” nella terra buona: tutto il suo operato dunque, passa per i tre momenti della morte, resurrezione ed effusione dei doni, metaforizzati dall’albero che “affonda”, “rifiorisce” e “si infrutta succoso”, “albero di alberi.
L’uomo di pace dove passa affonda
Invisibili radiche succhiando
Liquori dalla terra e rifiorisce
E si infrutta succoso
– Albero di alberi
Albero animato
Albero di colombe:
Vede da dentro,
Dai diversi dentro –
Screpolando le croste soffocanti.
Questa libertà interiore vissuta dal poeta, consente di non essere costretti a vivere aggrappati “come un naufrago a un tronco”. La chiave di tutto, ribadisce lui stesso nel prossimo articolatissimo componimento, è “la vita eterna”, la bellezza che sta nell’intendere il vagare delle stelle”, nel “disseminare gli attimi perfetti”; è una bellezza che trascina, che spinge a non stare comodi, “a contrastare ogni sclerosi”: è “la rivoluzione contro il Dio delle zecche e i suoi accoliti”.
La vita eterna è possibilità urgente del presente, non spostata verso il futuro o nel passato: che il tempo presente coincida in pieno con quello della vita eterna è reso ancora più evidente dal ricorrere dei verbi di modo infinito all’inizio di molti versi, come ad immortalare l’attimo frantumandolo nelle sue infinite potenzialità: “sapere”, “riguardare”, “esplorare”, “decifrare”, “intendere”, “non ammuffire”, “disseminare”, “scegliere”, fino ad arrivare a “masticare e a essere masticati / a bruciare e a bruciarsi”.
SE QUANDO SENTI DIRE VITA ETERNA
Se, quando senti dire vita eterna
ti abbracci, come un naufrago a un tronco,
forse non hai capito.
Non futura rivalsa è in impossibili
paradisi o inferni. Non è
mummificarsi.
Vita eterna
è sapere respiro del mattino
quando ancora nel bosco non prorompe
vento di sole –
aria di fragole tra felci curve
aria densa di funghi, umida aria
di muschio abbarbicato nel granito –
smeraldo di acque
e vigile svolare di gabbiani
riguardare attraverso lucenti
occhi bambini,
esplorare umilmente nel segreto
di un atomo invisibile,
decifrare a una roccia la sua storia,
intendere il vagare delle stelle
non ammuffire in chiuse nostalgie:
rianimando la vita se si esangua
disseminare gli attimi perfetti
esperti a contrastare ogni sclerosi
scegliere il fronte:
è la rivoluzione
contro il Dio delle zecche e i suoi accoliti
lo spasimo del tendersi
a un incontro pieno.
Sapendo il mondo un immane crogiolo
in cui i corpi in altri si dissolvono
le forme in altre forme,
è consentire
a masticare e a essere masticati
a bruciare e a bruciarsi
essere la corrente e alimentarla
cercando dirigersi
(né se strascicati sbattendo da evento
in evento si evade o tentando stagnare al margine)
e quando il cuore cessa di pulsare,
senza frapporre marmi piombi legni
lasciare le radici ti risucchino
semplicemente –
come le hai succhiate.
Danilo Dolci, Il Dio delle zecche.
Lo “scegliere il fronte” si traduce per Danilo Dolci in un impegno educativo appassionante che lo porterà, dagli anni Settanta in poi, ad animare laboratori per ragazzi, centri culturali e associazioni in tutta Italia. Attingendo alla maieutica socratica, il suo metodo di lavoro mira non a smistare verità preconfezionate ma a valorizzare il contributo di ogni collettività e di ogni singolo: il progresso, secondo Dolci, non avviene senza il coinvolgimento di tutti gli interessati. La distinzione tra il termine ‘in-segnare’ inteso come scalfire una lavagna, e ‘e-ducare’ nel senso di tirare fuori il bene dell’altro, emerge nel testo seguente.
Si tratta dello stesso metodo impiegato dall’artista Michelangelo per scolpire: togliere via, denudare, la pietra e far emergere la figura che vi è dentro, liberare i personaggi nascosti nel marmo, farli vivere per quello che sono: semplicemente, rendere visibile quello che già c’è
senza dover inventare nulla, assecondando le preziose venature. Educare è il contrario di “nascondere” e si attua soffermandosi sul bello che in un primo momento non appare:
CIASCUNO CRESCE SOLO SE SOGNATO
di Danilo Dolci
C’è chi insegna
guidando gli altri come cavalli
passo per passo:
forse c’è chi si sente soddisfatto
così guidato.
C’è chi insegna lodando
quanto trova di buono e divertendo:
c’è pure chi si sente soddisfatto
essendo incoraggiato.
C’è pure chi educa, senza nascondere
l’assurdo ch’è nel mondo, aperto ad ogni
sviluppo ma cercando
d’essere franco all’altro come a sé,
sognando gli altri come ora non sono:
ciascuno cresce solo se sognato.
L’urgenza di educare, formare, e lottare per i deboli, che contraddistingue tutta la vita di Dolci, è la stessa che muove e infiamma anche la sua scrittura: lo spiega lui stesso nell’ultimo componimento che pubblichiamo, quasi un manifesto poetico; la poesia è motivo di vita, poiché scaturisce da un “irreprimibile esigenza” paragonabile a un bisogno sensoriale, quello dell’occhio che deve vedere, della pelle che deve toccare. La negazione di questa esigenza vitale si tradurrebbe a poco a poco nella morte adombrata nel climax dei primi tre versi: “non vede”, “non sa”, “si spegne”.
Tuttavia, poiché l’irrequietezza irrefrenabile produce solo “adolescenti parole”, la coscienza del poeta impone un attenzione che coincide con un certo “pudore di poetare”: è la consapevolezza di chi sa di doversi mantenere umile di fronte al proprio essere strumento, attraverso la voce, confidando, come la Beatrice di Dante, “amor mi mosse che mi fa parlare”, e di chi allo stesso tempo, conoscendo il valore della propria missione, sa di evocare chi “per lungo tempo parea fioco”.
SE L’OCCHIO NON SI ESERCITA
di Danilo Dolci
Se l’occhio non si esercita, non vede
pelle che non tocca, non sa
se il sangue non immagina, si spegne.
Pure provato da fatiche e lotte,
meravigliato dei capelli bianchi
di persistere vivo, la tua voce
pudore ha di poetare:
a irreprimibile esigenza,
terra acqua creature
orizzonte, ti sono adolescenti
parole.
***
I poeti interessati a pubblicare le loro opere nella rubrica di poesia di ZENIT, possono inviare i testi all’indirizzo email: poesia@zenit.org
I testi dovranno essere accompagnati dai dati personali dell’autore (nome, cognome, data di nascita, città di residenza) e da una breve nota biografica.
Le opere da pubblicare saranno scelte a cura della Redazione, privilegiando la qualità espressiva e la coerenza con la linea editoriale della testata.
Inviando le loro opere alla Redazione di Zenit, gli autori acconsentono implicitamente alla pubblicazione sulla testata senza nulla a pretendere a titolo di diritto d’autore.
Qualora i componimenti poetici fossero troppo lunghi per l’integrale pubblicazione, ZENIT si riserva di pubblicarne un estratto.