«Amo la vita. Tutto il mio tormento consiste nella paura di non poterne godere abbastanza a lungo e appieno. Le giornate mi sembrano troppo brevi. Il sole tramonta troppo presto. Le estati finiscono così in fretta. La morte arriva così presto».
Così Irène Nèmirovsky, scrittrice ebrea, internata ad Auschwitz. Non ne uscì viva, ma attraverso i suoi libri, nascosti in un baule, il mondo ne conobbe la sofferenza e, soprattutto, la voglia e la gioia di vivere. Quella che a tanta parte di umanità incolpevole è tolta, assieme alla vita. Mentre Parigi piange le vittime della strage, in Nigeria interi villaggi vengono rasi al suolo e migliaia di persone sterminate. E lontano dalle telecamere proseguono, in Siria e Iraq ed in tante città del pianeta, le persecuzioni. Tutto invocando un dio, come se potesse esistere un dio capace di insegnare a sostituire le armi all’amore e ad imporre con la violenza la propria legge… di pace.
Ciò che sta accadendo è frutto di terrorismo, ma guai a considerarlo soltanto tale. Lo sgomento e il senso di impotenza che derivano dai fatti parigini o dai misfatti di Boko Haram e dell’Isis infettano la società perché portatori d’un messaggio letale: da una parte sta la fascinazione che esso esercita sugli elementi più deboli delle comunità musulmane. Dall’altra, cresce il pericolo di reazioni xenofobe tra gli strati più fragili dell’Occidente, già segnato dalla carenza di valori (da tempo) e di lavoro (da qualche anno).
È evidente il rischio del materializzarsi di una spirale di odio potenzialmente senza fine e di una nuova guerra santa, o di uno scontro di civiltà, a seconda delle ideologie e degli interessi con i quali si giudicano questi sanguinosi episodi di cronaca. È il riflesso della logica di morte che pervade la contemporaneità, in cui in mezzo a folle che sprecano il tempo e bruciano l’esistenza (quella propria e quella altrui) vengono quasi considerati fuori luogo quanti invece apprezzano il dono della vita cercando di dare il senso profondo che le è proprio e merita.
Non esiste, non può esistere, un movente religioso agli assassini ed alle missioni di morte. L’abbandono della logica della violenza sacrale, coincidente con la nascita di Cristo, ha raggiunto, all’indomani delle guerre mondiali, una visibilità cristallina nel Magistero cattolico, toccando le vette nei recenti interventi di papa Francesco. Non è utopico pensare che questa accresciuta consapevolezza contribuisca a far maturare, sul terreno del dialogo e del confronto, anche altre fedi religiose. E non è irragionevole ritenere che quanti non vogliono il processo di fratellanza abbiano scelto di contrastarlo con le armi. Ma tutto questo, va da sé, nulla ha a che vedere con la religione, quale essa sia. Ecco perché, di fronte alla feroce determinazione degli attacchi, le parole di fuoco e l’indignazione unanime non bastano a chiudere la partita, ma rendono indispensabile comprendere le reali ragioni dell’accaduto per imboccare senza incertezze la via del da farsi.
Certo, questa strada non può soddisfare chi invoca la discesa in campo degli eserciti, ma è nulla di meno di ciò che davvero c’è bisogno di fare. Più controlli, maggiore attenzione alle frontiere, anche leggi capaci in qualche modo di regolare e disciplinare i flussi migratori (senza mai cedere alla tentazione di inneggiare al partito della disumanità) possono servire. Servono. Ma non si riveleranno mai sufficienti in contesti sociali dalle porte aperte e perciò per definizione vulnerabili.
Insomma, non è solo questione di fucili, pistole e filo spinato, ma di occhi, di cuori, di teste, per scorgere l’ingiustizia, riconoscerla e ribellarsi ad essa, rifiutando di portare la sfida sul terreno scelto dai tagliagole: quello del sangue, quello della morte.
Sarebbe la loro vittoria: indurci a rinunciare all’unico Dio, quello dell’amore.