Si racconta che Ermes un bel giorno, approfittando dei privilegi dovuti alla sua divinità, scalzò un giovane di nome Croco per ottenerne la fidanzata, la pastorella Smiliace. Tale fu lo struggimento che investì Croco dopo il sopruso, che si trasformò in un incantevole fiore, al fine di omaggiare romanticamente con un’esistenza eterna l’amata che gli fu sottratta dal crudele dio.
Come per un misterioso destino, quell’incantevole fiore – petali violacei e stimmi gialli e scarlatti – colora oggi un fazzoletto di terra d’Abruzzo. Il Crocus Sativus Linneo, più comunemente conosciuto come zafferano, è un simbolo dell’Altopiano di Navelli, 30 chilometri a est dell’Aquila.
Basta farsi un giro da queste parti per rendersi conto di come gli echi amorosi del racconto mitologico abbiano infuso gli animi della popolazione di questo splendido anfratto d’Italia. È forte, travolgente l’identità che lega la gente abruzzese al suo bellissimo fiore e al prodotto che se ne ricava. Intere famiglie vivono il rapporto con lo zafferano non solo come un’attività professionale, ma come qualcosa di ancor più profondo e atavico. Qualcosa che fa piegare la schiena, incallire le mani e sudare la fronte. Ma che fa anche pulsare il cuore.
Ad ottobre, mese della fioritura, l’odore dello zafferano invade le strade dei paesi. Durante questo mese, la gente del posto si alza presto al mattino per raccogliere i fiori prima che la luce del giorno possa rovinarli. Terminata la raccolta, ci si ritrova tutti intorno a un tavolo per separare gli stimmi dai petali. Un momento di affiatamento e condivisione, un’usanza che l’incedere del tempo non ha scalfito.
La domenica poi, una volta conclusa la fase della separazione del fiore, puntualmente si consuma un’altra usanza mantenutasi intatta nei secoli: si va alla Messa. È fuori dalla chiesa, quando i paesani si incontrano, che si ha la percezione di come lo zafferano, da queste parti, sia un elemento di coesione sociale. Le persone si scambiano pareri e sensazioni sulla raccolta del mattino, le parole accompagnano i passi di chi si dirige di nuovo verso casa.
Del resto, è proprio nel luogo più vissuto della casa, ossia la cucina, che si deve consumare l’essiccazione, delicata ultima fase di lavorazione prima di ottenere il pregiatissimo Zafferano dell’Aquila. Sopra una brace di legno di quercia o di mandorlo viene appeso un comune setaccio per farina sul quale vengono posti gli stimmi del fiore. La tostatura avviene lentamente, giacché basta un minuto in più o in meno di bruciatura per danneggiare in modo irreversibile il prodotto.
Un processo che anima le cucine di questa zona dal XIV secolo, da quando un monaco domenicano originario di Navelli, trasferito in Spagna per lavorare presso il Tribunale dell’Inquisizione, si accorse delle qualità di questa piccola pianta originaria dell’Asia (giunta nella penisola iberica grazie agli arabi) e decise di importarla nella sua terra natia. L’intuizione di quel religioso si rivelò straordinariamente felice.
In questa parte d’Abruzzo lo zafferano trovò il suo habitat ideale, grazie a un terreno fertile e al clima freddo al punto giusto. È così che il prodotto assunse ben presto i connotati dell’eccellenza mondiale. Divenne il prezioso oro vermiglio de L’Aquila. Un prodotto capace di arricchire la nostra già cospicua cultura agricola e di rintuzzare un’intera economia locale.
Eppure, se non fosse stato per l’ostinazione e la saggezza di un uomo, questo patrimonio si sarebbe miseramente estinto. Già, è proprio così. È a Silvio Sarra, un piccolo imprenditore della frazione di Civitaretenga, morto nel 2009, che si deve il rilancio dello zafferano.
Nel 1971, in un periodo in cui le sirene dell’industrializzazione sembravano sopraffare le colture di questi gradevoli e proficui fiori, Silvio Sarra dette vita alla Cooperativa Altopiano di Navelli, un vero e proprio motore che riuscì a rilanciare la produzione e ad attirare la curiosità intorno a questa spezia dai benefici principi attivi.
L’eredità di Silvio l’ha oggi raccolta la vulcanica sorella Gina, una donna forte e gentile, proprio come il suo Abruzzo. Chiunque abbia la fortuna d’incontrarla, recandosi nell’agriturismo che oggi lei gestisce e che esiste sin dal 1986, può cogliere distintamente l’attaccamento a una tradizione contadina che contraddistingue questa donna. Quando sciorina ai visitatori, con i suoi caratteristici modi gioviali, l’ampio campionario di storie e aneddoti legati allo zafferano, l’amore traspare dai suoi occhi neri e profondi. Profondi come la sua terra. Quella terra mai stanca di ospitare i bulbi di un bel fiore che è un simbolo d’Abruzzo.