Tutto ciò che è spirituale deve necessariamente avere una causa spirituale, perché c’è un salto ontologico tra l’ordine materiale e quello spirituale. Infatti, la differenza tra i due ordini è di carattere qualitativo e non quantitativo: operazioni essenzialmente immateriali non possono essere originate da una causa materiale, altrimenti sarebbe violato il principio di causalità e “il più verrebbe dal meno”.
Deve quindi esserci un principio spirituale capace di compiere operazioni di natura immateriale, come sono gli atti razionali e liberi.
Questo principio è l’anima spirituale o, semplicemente, lo spirito o anima umana.
Van Steenberghen afferma che “Platone è stato così fortemente colpito dal contrasto tra le attività corporali e le attività spirituali dell’uomo, che ha creduto di doverle attribuire a due sostanze antagoniste: per lui, l’anima è una sostanza spirituale imprigionata in un corpo”[i].
Il dualismo antropologico platonico, come vedremo, sarà superato da Aristotele e da San Tommaso, ma è importante rilevare come Platone fosse pienamente consapevole della differenza essenziale tra attività materiali e immateriali e della necessità di affermare l’esistenza dell’anima spirituale, intesa come causa di queste ultime.
L’anima umana è spirituale, a differenza da quella degli animali, e la sua esistenza, come abbiamo visto è dimostrabile razionalmente[ii]. Oggi, però, per lo più si nega la sua realtà e si pensa che essa riguardi unicamente la fede cristiana.
Presentare oggi una relazione su questo argomento in un convegno di filosofia significherebbe esporsi al ridicolo, poiché il concetto di anima è considerato un arcaismo ormai superato da secoli. Anche in teologia il termine è quasi scomparso e nella predicazione è raro sentire dei sacerdoti che affrontino i problemi riguardanti lo spirito umano, anche se di quest’ultimo dovrebbero parlare approfonditamente poiché la Chiesa insegna che Dio si è incarnato per salvare le anime.
Come si spiega questo silenzio?
Un rapido sguardo d’insieme del percorso filosofico dal periodo moderno a oggi può essere illuminante.
Dalla filosofia greca fino a quella medioevale è raro trovare filosofi che neghino l’esistenza dell’anima spirituale, ad eccezione di Democrito, Epicuro e pochi altri. Nella filosofia moderna, razionalisti come Cartesio e Leibniz affermano la sua esistenza, ma, tra gli empiristi, Hume riduce tutto il complesso dell’attività spirituale ad una successione di stati psichici.
Il filosofo scrive in proposito:
“[…] Osserviamo che lo spirito umano è veramente da considerare come un sistema di differenti percezioni o differenti esistenze che, legate insieme dal rapporto di causa ed effetto, si generano reciprocamente e si distruggono, si influenzano e si modificano l’una con l’altra. Le nostre impressioni fanno sorgere idee corrispondenti e queste, a loro volta producono altre impressioni. Un pensiero ne caccia un altro, trascina con sé un terzo, da cui viene espulso a sua volta”[iii].
Kant, com’è noto, ha elaborato una geniale sintesi della filosofia razionalista e di quella empirista, e postula l’esistenza dell’anima immortale, ma non la dimostra avevano fatto Aristotele e San Tommaso.
Tale esistenza è affermata per giustificare la vita morale e, in particolare, la vita “santa”, che non potendosi realizzare pienamente nell’al di qua, richiede, sul piano etico, l’esistenza dell’anima spirituale che deve progredire all’infinito e quindi deve essere immortale.
Il filosofo scrive a riguardo:
“La piena adeguazione della volontà alla legge morale è la santità, una perfezione di cui non è capace nessun ente razionale del mondo sensibile in nessun momento della sua esistenza. Poiché tuttavia è richiesta come praticamente necessaria, può essere trovata solo in un progresso all’infinito verso quella piena adeguatezza, ed è necessario, secondo i principi della ragione pratica, fare di siffatto progredire pratico l’oggetto reale della nostra volontà.
Ma tale progresso infinito è possibile solo con il presupposto di una sopravvivenza infinita dell’esistenza e personalità dello stesso ente razionale (che si chiama immortalità dell’anima). Dunque il sommo bene è praticamente possibile solo con il presupposto dell’immortalità dell’anima,; e quindi quest’ultima, in quanto inseparabilmente connessa con la legge morale, è un postulato della ragione pura pratica”[iv].
Dopo Hume e Kant il problema dell’anima diverrà sempre più marginale nel pensiero filosofico.
Nell’Idealismo la questione dell’anima umana non si pone neppure, perché il singolo uomo non è considerato all’interno del sistema delle idee e l’essere umano è inteso come un fenomeno passeggero e transeunte del Dio-Pensiero, una goccia nell’oceano dell’Assoluto, che, alla sua morte in esso si scioglie.
L’esistenzialismo, al contrario dell’Idealismo, pone al centro della sua riflessione la vita concreta del singolo individuo con le sue angosce e inquietudini, ma i suoi rappresentanti più significativi Heidegger, Sarte, Jaspers misconoscono la realtà dell’anima, e definiscono l’essere umano come “rapporto all’essere”, “sentinella del nulla”, “autotrascendimento infinito ”.
Il Marxismo nega ogni dimensione spirituale, sostenendo che l’essenza umana è materiale come quella degli animali.
Secondo il Neopositivismo il concetto di “anima” non ha senso e per la Filosofia post-moderna e il Pensiero “debole” esso è una delle molteplici interpretazioni, succedutosi nel tempo, che è stata attribuita a un insieme di fenomeni umani.
Nella cultura odierna si è affermata un’ermeneutica relativistica che non distingue più il vero dal falso, sostenendo che la verità assoluta non esiste perché non esiste il mondo reale, ma si danno soltanto “interpretazioni” della realtà. Vattimo ripete spesso nelle sue opere questo enunciato di Nietzsche: “non ci sono fatti, solo interpretazioni” e aggiunge che questo “non è un enunciato metafisico oggettivo. Anche questo è <> un’interpretazione”[v].
E’ possibile distanziarsi da questo modo relativistico di pensare, operando l’epoché fenomenologica, cioè la “messa tra parentesi” della cultura odierna? Mettere tra parentesi non significa negare che oggi si pensa così, ma affermare un modo diverso di rapportarsi ai fenomeni.
Max Scheler ha affermato la realtà dello spirito umano mostrando che esiste in ogni uomo una dimensione profonda, che chiama “cuore”, capace di ”sentire” (Fülen) i valori e di gerarchizzarli in modo oggettivo. Questo “sentire” non è niente di sentimentale, ma è un’intuizione della verità.
Analogamente, il concetto di “cuore” non deve essere identificato con il sentimento o con la volontà, ma deve essere inteso, agostinianamente, con l’interiorità dell’essere umano (“in interiore homine habitat veritas”).
Il cuore è il centro dell’essere umano, il quale, secondo Max Scheler, “prima di essere un ens cogitans o un ens volens, è un ens amans”[vi].
Il filosofo afferma che l’uomo è un “essere spirituale” per la presenza del cuore e non dell’intelletto e della volontà, ma ciò significa non negare la realtà di queste facoltà, ma affermare che il cuore è il “luogo” nel quale si intrecciano tutte le dimensioni umane: intelletto, volontà, affettività e, come vedremo, corporeità.
Max Scheler concorda con Pascal che “il cuore ha le sue ragioni, che la ragione non conosce[…]”[vii], ma ciò significa dare spazio non al sentimentalismo, ma all’intuizione. Secondo il filosofo, l’essere umano avverte nel profondo della sua anima il desiderio di Dio poiché ricerca
un amore infinito.
Scrive:
“Un amore per propria essenza infinito – per quanto esso sia sempre […]concretizzato nella particolare struttura del suo portatore – esige […] un bene infinito capace di appagarlo […].“Inquietum cor nostrum donec requiescat in te”. Dio e solo Dio può essere l’apice della struttura graduale e piramidale del regno degli aspetti degni di essere amati”[viii].
Lo spirito umano desidera un amore infinito, ma tale desiderio è sufficiente per affermare l’esistenza di Dio o è invece necessaria una dimostrazione razionale?
Secondo Pascal “è il cuore che sente Dio, e non la ragione. Ed ecco cos’è la fede: Dio sensibile al cuore, non alla ragione”[ix].
Contrariamente a quanto sostenuto da Pascal, la ragione può dimostrare, come vedremo, l’esistenza di Dio movendo dall’esistenza dell’anima spirituale. Fede e ragione non si oppongono, ma si integrano vicendevolmente.
(La prima parte è stata pubblicata sabato 19 ottobre. La terza parte segue sabato 2 novembre)
*
NOTE
[i] F. van Steenberghen, Le thomisme, Presses Universitaires de France, Vendome 1992, II ed., p. 89. La traduzione è mia.
[ii] Secondo San Tommaso la conoscenza dell’esistenza dell’anima e delle sue proprietà è di carattere non intuitivo, ma dimostrativo, poiché “ non è […] per mezzo della sua essenza che l’anima si conosce, ma per mezzo del suo atto”( San Tommaso d’Aquino, Somma Teologica, I, LXXXVII, 1).
[iii] D. Hume, Treatise, I, IV, 6.
[iv] I. Kant, Critica della ragione pratica, a cura di A. M. Marietti, introduzione di G. Riconda, Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1992, p. 405.
[v] G. Vattimo, L’età dell’interpretazione, in “Eidos”, 1 (2003), p. 17.
[vi] M. Scheler, Ordo amoris, Morcelliana, Brescia 2008, p. 71.
[vii] B. Pascal, Pensiero n. 277, cit., p. 85.
[viii] M. Scheler, Ordo amoris, cit., p.71.
[ix] B. Pascal, Pensiero n. 278, cit., p. 85.