"Nella Chiesa si viene per scendere e non per salire"

Commento al Vangelo della XXX Domenica del Tempo Ordinario. Anno C

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Andare in Chiesa, frequentarla assiduamente, lustrarla e farci catechismo, anche pregarci tutti i giorni, può non voler dire nulla. Vi si può uscire esattamente come vi si è entrati. E’ quello che accade a “chi presume di essere giusto e disprezza gli altri”. Come noi che, prigionieri di un Io sconfinato che si crede “diverso”, consideriamo gli altri solo dei poveri scarti di noi stessi.

Non a caso questa società edonistica e carnale idolatra il diverso a tutti i costi, al punto che la normalità diventa l’eccezione da nascondere. Come nel Vangelo, dove il diverso, ovvero il fariseo, è in prima fila e il normale, ovvero il peccatore, se ne resta giù in fondo.

Chi si sente “diverso” si arroga sempre più diritti degli altri. Niente di nuovo, succede nelle famiglie, succede nella società con le nuove lobby “di genere”, è successo quel giorno nel Tempio. Ne è l’immagine il fariseo, di fronte a Dio come davanti a uno specchio nel quale non vedeva che se stesso travestito da dio: “stando in piedi, pregava rivolto verso se stesso“, secondo il senso del greco originale. Non prega, dialoga con se stesso…

E così, purtroppo, proprio il luogo dove Dio ha dato convegno al suo Popolo, diviene la passerella dell’ipocrisia. Come le nostre Chiese, le comunità, e poi ovunque Dio ci ha dato appuntamento, a casa, al lavoro, a scuola. A causa dell’inganno del demonio la nostra vita diviene un’autocelebrazione no-stop, un Grande Fratello dove esibire ipocrite vanità, per colorare di virtù anche i peccati.

Il pubblicano, invece, “non osa neanche ad alzare lo sguardo”, posato sulla terra che definisce la verità su se stesso. Il testo greco suggerisce che egli non si sentiva semplicemente un peccatore, ma il peccatore. Per questo tende la mano a percuotersi il cuore dal quale sa che sgorga ogni malvagità, per spezzettarlo e farne un cuore contrito ed umiliato. 

In lui rinveniamo le sembianze del Signore Gesù: Lui non è mai rivolto verso se stesso, ma perennemente rivolto verso il seno del Padre (cfr. Gv 1,18). Sulla Croce Gesù ha gridato implorando a Lui perdono per tutti noi; è sceso all’ultimo posto, “a distanza” – e che distanza… – sino a sentire l’abbandono del Padre. Gesù si è fatto pubblicano tra i pubblicani, disprezzato da tutti, perché i superbi, tu ed io, potessimo scendere i gradini che conducono alla verità.

Lui è già nel fonte battesimale che ci attende oggi, nel buio di cui abbiamo paura, nella verità che ci può far liberi.Lo troveremo sempre là dietro, dove non te lo aspetti e non lo cercheresti: in chiesa, all’ultimo posto… hai presente l’angolo oscuro accanto alla bacheca con le riviste della buona stampa? Proprio dove si fermano quelli dell’ultima ora nell’arrivare a messa e della prima ad uscire…

E’ lì che si prega, perché è solo all’ultimo posto, l’unico che ci fa autentici, che si sperimenta la paternità di Dio. Presumere di se stessi e credersi migliori, infatti, non fa parte del DNA dei figli di Dio. Tutto il contrario. Per questo non si diventa figli senza una lunga gestazione nelle viscere materne della Chiesa che ci rigenerano a immagine di Cristo.

Nell’attitudine del pubblicano Gesù rivela il cuore del cristiano. Egli è colui che, dopo un catecumenato che lo ha aiutato a conoscersi, è giunto nell’abisso del suo nulla dove ha incontrato Cristo. Ha dato morte all’uomo vecchio illuso e superbo, per rivestire il nuovo, sino ad assumere la stessa confidenza filiale di Gesù.

Ben venga allora la Croce che pota l’arroganza e ci “umilia” dinanzi a Dio e agli uomini. Abbiamo paura vero? Non vorremmo che fossero svelate le nostre debolezze… Davanti al marito o alla moglie, qualcosa sì, che vuoi dopo tanti anni, ma proprio questa schiavitù no… Che ne sarebbe della nostra relazione? Che farebbe mia moglie se sapesse che, a cinquant’anni suonati, ancora cado attratto dalla pornografia?

Davanti ai figli, beh questo proprio no. Loro devono avere modelli sani, non genitori scassati…. E un prete, un vescovo, un papa, la prudenza invita a occultare difetti e peccati… Che stolti siamo, ancora schiavi del mondo e dei suoi criteri. Certo, nella penombra non ci si avvede che, se Cristo si è fatto peccato e ora è lì in fondo alla Chiesa, la stessa struttura del Tempio è ormai capovolta.

Il Santo dei Santi non si trova più laddove il fariseo si era inoltrato a presentare la propria pretesa giustizia, ma è disceso a “giustificare”, a perdonare e a fare giustizia del cuore contrito del pubblicano. Nella Chiesa si viene per scendere e non per salire, per sperimentare tutti a favore di tutti la stessa “giustificazione”…

E’ quello che aveva sperimentato San Paolo caduto dalla propria superbia di fariseo: “Nella debolezza si manifesta pienamente la potenza di Dio”. La preghiera di un cristiano formato è il linguaggio filiale che esprime una fede adulta: stima chiunque superiore a sé stesso. E’ il frutto del discernimento che ha su stesso e sulla storia: è la domanda di Grazia di un condannato a morte.

Il cristiano sa di camminare ogni giorno su un filo, con lo strapiombo a destra e a sinistra; non presume di se stesso e non nasconde a nessuno la propria debolezza, meno che meno a Dio. Si abbandona alla sua “pietà”, nella certezza che, istante dopo istante, laddove potrebbe abbondare il peccato e condannarsi, sovrabbonderà di certo la Grazia che lo giustificherà.

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Antonello Iapicca

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