Si può fare di più

Buone le intenzioni e la direzione, ma le misure per il saldo di stabilità non convincono

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Ha ragione Enrico Letta ad affermare che dopo tanti anni di stangate e sacrifici, per la prima volta questa manovra può dare e non togliere alle famiglie e alle imprese?

Ad una lettura superficiale il saldo della Legge di Stabilità va in questo senso.

Una lettura più attenta ci dice cose diverse.

Innanzi tutto le condizioni del Paese sono allo stremo e quindi molti si attendevano che la manovra economica del governo ridesse fiato e speranza all’economia reale italiana, la quale dal 2007 ad oggi ha perso addirittura il 9 per cento della produzione di beni e servizi e ha visto raddoppiare la disoccupazione, da un milione e mezzo a oltre tre milioni di persone.

Per porre fine alla desertificazione industriale e sociale del Paese la Legge di Stabilità ha in se gli strumenti per invertire questa situazione, portando il Pil a crescere almeno di un punto percentuale nel 2014 come il governo prevede?

Il fulcro di politica economica della Legge di Stabilità consiste nella riduzione del cuneo fiscale, cioè della differenza tra il costo che mediamente le imprese sostengono per ogni lavoratore e il salario netto che entra nelle tasche del lavoratore stesso.

Una differenza dovuta, naturalmente, al peso di tasse e contributi che pesano sulle tasche degli imprenditori e dei lavoratori, e che in Italia è piuttosto elevato (secondo l’OCSE il cuneo assorbe il 47,6 per cento del costo del lavoro, contro una media del 35,6 per cento dell’insieme dei paesi OCSE).

In tal senso la riduzione del cuneo fiscale prevista dal provvedimento del governo va nel giusto senso.

Il problema riguarda la qualità dei tagli.

Infatti, nella misura in cui riduce il costo del lavoro per le imprese, essa determina una contrazione dei costi di produzione e quindi dei prezzi di vendita delle merci e dei servizi, facendo aumentare la competitività dell’industria nazionale.

In questo modo, si rilanciano le esportazioni e si invogliano le famiglie a un maggiore acquisto di merci nazionali e quindi a una nuova e buona occupazione, e ciò porta a una riduzione delle importazioni. Dall’altro lato, nella misura in cui aumenta il reddito disponibile dei lavoratori, il taglio del cuneo fiscale determina una crescita della domanda di beni di consumo e ciò spinge le imprese ad aumentare la produzione e l’occupazione.

Insomma, l’abbattimento del cuneo fiscale fa crescere la competitività e alimenta la domanda interna, fa crescere il Pil e diminuire il rapporto debito Pil, tutte cose di cui abbiamo assoluto bisogno per riprendere la via dello sviluppo.

L’intervento dunque è teoricamente buono, ma vediamo come viene proposto, cioè su che scala e a quale costo.

Va chiarito che l’intervento del governo – tra sgravi Irpef e Irap, e decontribuzioni Inail – taglia il cuneo di 10,6 miliardi nel triennio, appena 2,5 miliardi nel 2014.

E’ del tutto chiaro che si tratta di un intervento estremamente contenuto, che nel 2014 metterà nelle tasche di un lavoratore medio circa 15 euro al mese e per un numero limitato di lavoratori). E’ del tutto evidente  che si tratta di poca cosa.

Una manovra per il solo 2014, per dare degli effetti minimamente rilevanti,  sarebbe dovuta essere pari all’importo previsto nel triennio.

Le risorse complessive della Legge di Stabilità del governo – che per il 2014 vale 11,6 miliardi – provengono soprattutto da tagli di spesa pubblica lineari, da dismissioni, da qualche maggiore entrata e dal blocco della contrattazione e del turnover nel pubblico impiego.

Nessun taglio è stato fatto sul fronte delle provincie, delle liberalizzazioni, del costo della politica, della macchina burocratica, degli stipendi d’oro dei manager pubblici, delle pensioni d’oro, della giustizia.

Inoltre i tagli della spesa pubblica e gli aumenti delle tasse indirette (vedi Service tax) porteranno ad una minore domanda e quindi ad aumentare il rischio di una maggiore la recessione del Paese.

Se, infatti, il taglio del cuneo alimentava la domanda, tagli e tasse la riducono in misura maggiore. E se la domanda complessiva non torna a crescere non possiamo sperare che l’economia reale riparta.

A riguardo è bene ricordare che dal 2002 al 2012 l’Italia ha registrato una dinamica della domanda interna (acquisti di beni e servizi da parte di singoli e famiglie) complessivamente negativa (-1,6%), contro valori significativamente in crescita nell’area euro (+ 9%) e soprattutto negli USA (+ 15%).

Purtroppo bisogna rilevare che i tagli vanno sempre a toccare le famiglie, i giovani e gli anziani.

Le osservazioni appena fatte ci portano alla filosofia di fondo della manovra del governo, peraltro uguale in tutta Europa. Si tratta di una manovra nella quale complessivamente alcune piccole riduzioni della pressione fiscale vengono finanziate con altrettante riduzioni della spesa pubblica pagate, più o meno dalle stesse persone.

A ben vedere, lo scopo principale della manovra è restare dentro i tanto discussi vincoli europei, e in particolare tenere il deficit pubblico (la differenza annua tra uscite ed entrate pubbliche) entro il limite del 3 per cento del Pil.  

Difatti le politiche di austerity non solo sono recessive ma  anche socialmente ingiuste perchè colpiscono la classe media e i più poveri.

Speriamo che il Parlamento possa apportare quelle modifiche di cui il Paese ha urgentemente bisogno.

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Carmine Tabarro

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